Interazioni

Torna a Interazioni

Interazioni: una nuova prospettiva per la psicoanalisi?

N. 10 / 1997 - Francoangeli

Editoriale

+Giuseppe Martini e Anna Maria Nicolò Corigliano Interazioni: una nuova prospettiva per la psicoanalisi?

La rivista Interazioni è giunta con questo numero al suo quinto anno di vita. Un certo dibattito ne ha preceduto la pubblicazione, per il desiderio di riprendere alcuni temi di fondo che avevano caratterizzato la rivista fin dalla sua fondazione e di farne il punto a cinque anni di distanza. Temi quali il rapporto tra intrapsichico e interpersonale o tra mondo interno e realtà esterna sono stati a lungo presi in considerazione.
Abbiamo infine pensato che una puntualizzazione sul tema “interazioni” avrebbe consentito di toccare nodi cruciali del dibattito attuale, senza dimenticare il focus su “famiglia e coppia” come setting ove le interazioni sono particolar- mente centrali nella diagnosi e nell’intervento. Sembrerebbe che da un decennio si sia approdati ad una fase nel corso della quale, come ulteriore e non secondario effetto della crisi della meta-psicologia, le parole abbiano assunto, all’interno della teoria psicoanalitica, una funzione “evocativa” sul tipo di quella che, con maggiore appropriatezza, hanno sempre avuto, e sempre manterranno, nel campo dell’arte e della poesia.
Basti pensare a empatia, enactment, campo, relazione e, non ultima, interazione… In altri termini, se Freud ed i suoi contemporanei, nell’inaugurare un nuovo vocabolario, si mostrano molto attenti a che ogni termine sia preceduto e disegni un ben definito sistema di concetti teorici, sembrerebbe che l’attuale tendenza preveda che la parola preceda il concetto, nella speranza (talora eccessiva, ma non inconsulta) che la prima favorisca un più articolato emergere e delinearsi del secondo. Insomma, non più dalla teoria alle parole, bensì dalle parole alla teoria, con la conseguenza, unanimemente riconosciuta, che la stessa parola può accennare a ben diverse e contrapposte teorie! Posta la questione in siffatti termini, ci sarebbe, a ragione, da preoccuparsi. Ma forse va anche constatato che se queste parole emergono, quale designazione di concetti ancora informi e imprecisi, esse segnalano tuttavia una sostanziale trasformazione della clinica e dell’atteggiamento analitico. Ciò dovrebbe contribuire a ridurre la nostra perplessità nei confronti dei nuovi termini in cerca di teorie, senza attenuare la nostra soglia di attenzione critica verso la loro persistente vaghezza. Il termine interazione si colloca tra essi e le considerazioni di cui sopra, oltre a quanto seguirà, giustificano appieno tanto il punto interrogativo che connota il titolo di questo numero monografico, sia, sull’opposto versante, la scelta di cinque anni fa, implicitamente riconfermata con questo numero, di dedicare a tale tematica un’intera rivista. Come riporta Hurst ad apertura dell’articolo dello JAPA qui riproposto in versione italiana, il termine “interazione” rimanda all’humanistic core della psicoanalisi, ma, al di là di un tale generico riferimento, rimane un controversial concept che può essere utilizzato in differenti modi, correlati ora ad un one-person model, ora ad un two-person model (Fossahage, 1995), sebbene rimanga innegabile che, nell’uso prevalente, esso contrassegni lo stile di un intervento che tende a spostare il suo focus dall’intrapsichico all’interpersonale. Fatto è che le molteplici possibili letture del termine trovano una prima legittimazione già a livello semantico, stante la sua possibile scomposizione inter-azione che può supportare non piccole ambiguità concettuali. Infatti il suffisso inter- rimanda alla co-costruzione del lavoro analitico ed alla sottolineatura non solo della relazione, ma dell’importanza di relativizzare ogni acquisizione all’interno del setting riportandola al lavoro della coppia analitica, piuttosto che all’apporto del singolo (il lavoro dell’hic et nunc; la co-creazione del significato; la fallacia del lavoro di ricostruzione; l’inesistenza di un significato originario appartenente esclusivamente al paziente; l’ineludibile riferimento al punto di vista dell’osservatore con il canonico rinvio al principio di indeterminazione di Heisemberg). Dal canto suo il sostantivo azione rimanda al nucleo “duro” e oggettivabile della realtà (il trauma; il ruolo degli eventi di vita nelle teorie dello sviluppo; il riferimento alle interazioni che hanno contraddistinto l’esistenza del paziente e dunque alla sua storia, con la conseguente rilevanza del momento ricostruttivo; la “realizzazione simbolica” e più in generale il concreto agire dell’analista con i pazienti psicotici e schizofrenici). Già a tal punto emerge il rischio che vengano a ritrovarsi sullo stesso fronte (nominale) di “psicoanalisti interazionisti” persone che muovono in realtà da orizzonti concettuali persino contrapposti.

Ma è poi legittima tale definizione, o per lo meno quanti sarebbero pronti ad autodefinirsi in tal modo? Per alcuni è forse possibile far fronte a tali obiezioni e procedere verso la definizione di un modello forte, di un vero e proprio paradigma interattivo. Per altri, tra cui troviamo la nostra collocazione più congeniale, è forse più auspicabile procedere per una diversa strada in cui il riferimento alle interazioni stia a definire non tanto un paradigma, quanto una posizione dell’analista, posizione che, in quanto tale, può oscillare e trasmutare senza per questo approdare all’eclettismo. Da questo punto di vista il termine interazione va soprattutto definito per contrasto e contrassegna il polo di una possibile oscillazione che si ricollega, come tipologia modellizzazione, ad altre che entrano costantemente in gioco nel contrassegnare la relazione analitica o psicoterapeutica: l’oscillazione d -> ps (Bion, 1965), o quella tra polo espressivo e polo supportivo (Gabbard, 1994). All’interno del analitico l’interazione si configurerebbe così come una polarità che si antepone, ed acquisisce senso solo rispetto alla relazione fantasmatica, o comunque all’interno di una serie di opposizioni che la chiamano in causa o direttamente (interazione-controtransfert; Ponsi, 1997), o implicitamente (empatia-controtransfert, presenza-introiezione; Correale, 1997). Ne discendono due non trascurabili corollari. In primo luogo, se l’interazione non configura un paradigma, bensì un’oscillazione del rapporto analitico, non può essere rigettata la posizione di chi sostiene, o lascia intendere, che, effettivamente, una psicoanalisi solo interattiva non è una psicoanalisi (Oremland, cit. in Hurst, 1995; Chianese, 1997), al pari di come, occorrerà aggiungere con altrettanta chiarezza, una psicoanalisi che si centri esclusivamente sul polo delle relazioni fantasmatiche, della neutralità e dell’astinenza viene ad essere una caricatura che presumibilmente non ha mai fatto parte del pensiero e della prassi né di Freud, né di alcun altro maestro della psicoanalisi (e che però potrebbe rappresentare un’aberrazione del futuro: il computer che sostituisce lo psicoterapeuta). In seconda istanza, stante la scarsa definizione del concetto, il dibattito tra chi si trova su diverse posizioni non può ancora svilupparsi su di un terreno prevalentemente o esclusivamente teorico, pena il crearsi di continui fraintendimenti. Occorre piuttosto capire, partendo dal materiale clinico, preferibilmente da una definita e circoscritta tranche della seduta, quali differenze (o quali concordanze) si svilupperebbero muovendo da una prospettiva interattiva o da una più “tradizionale”. In questo modo la vaghezza del termine “interazione” potrebbe avere davvero un effetto propulsivo sulla teoria e superare il rischio che le parole assumono di frequente nei cattivi poeti, che ambiscono a simbolizzare attraverso di esse qualcosa di indicibile per mezzo del linguaggio ordinario, ma finiscono col segnalare solo il vuoto del loro pensiero. Queste premesse rendono chiaro perché la redazione ha deciso di testimoniare la contraddittorietà del dibattito e la sua complessità. L’intervista ad Edgar Morin, che apre il numero, considera questa problematica anche dal punto di vista filosofico, in particolare secondo la teoria della complessità che a nostro avviso è oggi una delle prospettive più interessanti e proficue per comprendere i diversi livelli della realtà e della conoscenza. Le radici storiche del concetto di interazione sono percorse e ripensate in modo originale nell’articolo della Coretti. Un dibattito americano e uno italiano mostrano la contraddittorietà di questi temi e aprono la strada a ulteriori discussioni. Un’applicazione clinica alla famiglia è discussa nell’articolo di Anna Nicolò.

Bibliografia

  • Bion W. (1965), Trasformazioni, Armando, Roma, 1973.
  • Chianese D. (1997), Costruzioni e campo analitico, Borla, Roma.
  • Correale A. (1997), Quale psicoanalisi per le psicosi?, in Correale A., Rinaldi L. (a cura di), Quale psicoanalisi per le psicosi?, Cortina, Milano.
  • Fossahage J.L. (1995), Interaction in psychoanalysis: a broadening horizon, Psychoanalytic Dialogues, 5, 3, 459-478.
  • Gabbard G.O. (1994), Psichiatria psicodinamica, Cortina, Milano, 1995.
    Hurst D.M. (1995), Toward a definition of the terra and concept of interaction, JAPA, 42, 2, 521-537.
  • Oremland, cit. in Hurst, 1995.
  • Ponsi M., Filippini S. (1996), Sull’uso del concetto di interazione, Riv. Psicoanal., 42, 567-594.

Scarica l’indice Scarica i riassunti