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Il perturbante

A cura di: Chiara Rosso

Il perturbante in Freud e nelle elaborazioni post-freudiane

Nell’estate del 1919, durante una pausa della stesura di Al di là del principio del piacere (1920), Freud rimaneggia un vecchio manoscritto: nasce così il Perturbante (Das Unheimliche) Questo piccolo gioiello è incuneato tra produzioni freudiane più corpose e condensa l’apporto di teorie e suggestioni abbozzate in opere precedenti, come ad esempio l’animismo in Totem e Tabù (1912-13) o la coazione a ripetere in Al di là del principio del piacere (1920). Ricco di stimoli letterari, esso rappresenta per Freud l’occasione di sviluppare il pensiero di altri autori; da subito sappiamo che il motore della sua riflessione scaturisce dal saggio di Jentsch (1906) nel quale il perturbante è associato a personaggi del racconto fantastico di Hoffman, L’uomo della sabbia (1816a) e in particolare alla figura dell’automa Olimpia. Il saggio di Jentsch è giudicato da Freud (1919) «succoso ma non esaustivo» (p. 82). Il dubbio che «un essere apparentemente animato sia vivo davvero» (p. 88) e il concetto di “incertezza intellettuale” o il paradosso cognitivo che prova il lettore di un racconto fantastico, non lo convincono completamente.

Ma che cos’è dunque il perturbante? È «quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare» (p. 82) o per dirlo con le parole di Schelling: qualcosa «che avrebbe dovuto rimanere segreto, nascosto e che è invece riaffiorato» (Freud, 1919, p. 86). Dall’Heimliche all’Unheimliche, da ciò che è familiare a ciò che turba, restiamo affascinati e quasi disorientati dall’elenco di Freud sulle possibili traduzioni di questo concetto, sia sotto il profilo linguistico che del significato. Tutto può essere perturbante, del resto anche la psicoanalisi che mira a metter luce nelle forze occulte, può diventare essa stessa «perturbante per molte persone» (p. 104), egli nota non senza ironia. Freud preferisce addentrarsi in una lettura psicoanalitica della favola de L’Uomo della sabbia mentre la dialettica animato/inanimato rimane sullo sfondo. È il ritorno del rimosso di epoche psichiche lontane che lo interessa e attraverso la favola cui si rimanda, Freud lega l’angoscia del protagonista Nathaniel, uno studente ossessionato da ricordi infantili, all’angoscia di castrazione che si nasconde dietro la paura dell’accecamento. Nathaniel bambino coniuga la figura terrifica dell’uomo della sabbia detto anche “mago sabbiolino” con quella del visitatore notturno del padre, il sinistro avvocato Coppelius. Nei racconti della bambinaia intrisi di dettagli raccapriccianti, il mago sabbiolino getta sabbia negli occhi dei bambini che non vogliono dormire («gli occhi sanguinanti balzano fuori dalla testa», p. 89). Il mago ‒ alias l’avvocato Coppelius ‒ sostituisce nell’immaginazione del piccolo Nathaniel, «il padre temuto dal quale ci si aspetta l’evirazione» (p. 93), lo stesso padre, la cui morte misteriosa e spaventosa ossessiona i suoi ricordi. Non tutto ciò che torna dal passato è perturbante ‒ precisa Freud ‒ ma lo diventa nella misura in cui le antiche credenze sopravvivono in noi e si verifichi la coincidenza tra desiderio e realizzazione. Riguardo alla ripetizione di avvenimenti e di cifre, Freud scrive che «il turbamento causato dal ritorno di eventi analoghi può esser fatto risalire alla vita psichica dell’infante» (p. 99) dove prevale la coazione a ripetere come elemento perturbante. Il “famigliare” tenuto nascosto, i desideri, gli affetti, e le angosce che pensavamo d’aver superato tornano a galla ed è proprio questo che ci terrorizza. Nell’ottica freudiana lo svelamento del rimosso ha una natura traumatica e ansiogena e il perturbante è la rottura di senso che segnala la rappresentazione dell’assenza di rappresentazione, secondo una sorta di teoria traumatica provvisoria. Per dirla con Lacan il perturbante esprime “la mancanza della mancanza” o ancora lo svanire della “non-coincidenza”. La lettura di opere fantastiche, la visione di certe opere artistiche generano inquietudine nel soggetto provocando l’Unheimlichkeit, cioè il turbamento che lo spinge a costruire una narrazione al fine di contenere i sentimenti rimossi improvvisamente emersi.

Il Perturbante (1919) affronta un tema che sfugge sul piano concettuale, è quasi un testo “da interpretare” nota Moroni (2019) nel suo bel libro su questo argomento. Le ramificazioni del Perturbante si estendono verso la magia, l’animismo, l’onnipotenza dei pensieri, l’angoscia di castrazione, la coazione a ripetere e la relazione con la morte. Quasi a metà dello scritto, attraverso un altro racconto di Hoffman, Gli elisir del diavolo (1816b) in cui il protagonista Medardo è affiancato da un sosia, Freud introduce l’argomento del doppio e riprende le suggestioni di Rank delineate nel Der Doppelgänger (1914). Ma qual è la funzione del doppio? «L’identificazione del soggetto con un’altra persona sì che egli dubita del proprio Io» (1919, p. 95). Attraverso un perpetuo ritorno dell’eguale, l’Io è spinto a creare un compromesso per tollerare l’angoscia e ristabilire una omeostasi narcisistica.

Per Rank il doppio indica una «energica smentita del potere della morte» e Freud (p. 96) aggiunge che esso rappresenta una sorta di baluardo contro la scomparsa dell’io che risale a tempi psichici remoti dove tale formazione aveva un significato più amichevole e non vi era ancora una separazione tra l’io e il mondo, l’Io e l’altro. Il doppio sembra evocare la paura della morte che un tempo l’illusione del sosia riusciva a scongiurare. In sostanza, il Perturbante si dipana lungo tre assi ricapitolando in qualche modo il pensiero metapsicologico di Freud. In primo luogo la sua rilettura de L’Uomo della sabbia coinvolge la prima topica e il complesso di castrazione, il secondo asse è relativo al concetto del doppio che affonda le sue radici nell’animismo e nel narcisismo aprendosi sulle identificazioni ed infine la terza direttrice rinvia all’essenza della pulsione dal carattere demoniaco e alla coazione a ripetere, temi questi sviluppati da Freud in Al di là del principio del piacere.

Non è la sede in cui dilungarsi sugli sviluppi post freudiani di questo affascinante argomento su cui vari autori si sono cimentati[1], qui mi limito ad un rapido cenno. Bion approfondisce il tema del doppio nelle sue riflessioni sul gemello immaginario (1967). La fantasia gemellare è connessa a parti scisse sottratte alla conoscenza del soggetto e che quest’ultimo desidera riconquistare; nel lavoro analitico queste parti scisse sottratte all’analisi tornano con particolare turbolenza. Bion, inoltre, descrive il perturbante come l’impatto di stimoli traumatici o elementi beta sulla nostra “barriera di contatto” o frontiera emotiva mentale. Kancyper (1999) mette in connessione il doppio perturbante col rapporto fraterno (sdoppiamento narcisistico), attraverso la teorizzazione del complesso fraterno. I fratelli sono legati tra di loro, ma anche animati da forte rivalità e conflittualità. Per la Klein l’accento è posto sull’avidità orale, per Lacan il perturbante è in connessione con l’incontro della pulsione là dove era attesa la castrazione[2]. Di Winnicott ricordiamo il collegamento tra il perturbante e lo “spazio potenziale”; un concetto interessante e in qualche modo trasversale è quello dell’“oggetto evocativo perturbante” sviluppato da Bollas (2009) nel tentativo di integrare i vari approcci su questo tema. Gli oggetti, culturali e collettivi rispecchiano la natura inconscia del vissuto e di esperienze non elaborate il cosiddetto “conosciuto non pensato” (Bollas, 1987). Le opere letterarie, cinematografiche, pittoriche, suscitano esperienze sensoriali e emotive che costituiscono il confine narcisistico del soggetto o la sua “frontiera familiare”, l’Heimlich appunto, mentre il perturbante è ciò che lacera improvvisamente la frontiera identitaria del soggetto precipitandolo nel burrone dell’angoscia di annichilimento (Moroni, 2019). Il perturbante ha una potenzialità costruttiva e decostruttiva e rievoca le oscillazioni della relazione primaria materno-infantile attraverso il passaggio dall’esperienza estetica a quella angosciosa, dal sentimento di meraviglia a quello dell’inquietudine. Meltzer (1981) ha descritto efficacemente questi aspetti attraverso la teoria del “conflitto estetico” o il dilemma cognitivo del bambino riguardo all’interrogativo se ciò che è bello fuori come il volto materno possa essere brutto/cattivo dentro. Il bambino esce dal conflitto attraverso lo sguardo materno che lo accoglie e lo investe della propria bellezza. È dunque la relazione a dare senso alla bellezza e a spazzare via il sentimento di turbamento.

 

 

Il perturbante in antropologia (Il caso del Senegal tra rito e possessione)

 

Il concetto di perturbante potrebbe essere visto in un’ottica dinamica, come un processo più che come una teorizzazione statica. A questo proposito mi sembra interessante sottolineare l’articolazione del perturbante con il pensiero antropologico e fenomenologico di Ernesto de Martino. In che modo la “linea o bordo del perturbante” (Pascarelli, 2018) interagiscono con “la presenza” demartiniana (l’esserci al mondo o il Da-sein di Heidegger)? Potremmo intendere la “crisi della presenza” come lo spaesamento che scompagina l’iscrizione armoniosa in un dato universo magico-simbolico, poiché la storia personale del singolo rinvia in modo dinamico a quella del contesto culturale cui appartiene. Nel riprendere alcune fra le tematiche introdotte da Freud e lasciate sullo sfondo nello scritto del Perturbante o più approfondite in Totem e tabù, quali l’animismo, il pensiero magico e la dialettica animato/inanimato, va sottolineata l’importanza del rito come necessità di rappresentare simbolicamente quella cerniera ineludibile tra l’affermazione di sé e l’universo di caducità a cui l’uomo è confrontato. Alcuni riti infatti attraverso una drammatizzazione culturalmente codificata, mettono “in scena” il processo del perturbante allo scopo di dominarlo per esorcizzare l’angoscia di separazione e di morte. E non solo, bisogna anche considerare la loro radice polisemica nel racchiudere diversi profili: politico, religioso e terapeutico a confronto con una modernità sempre più individualizzante (Miramonti, 2018).

Come ho già scritto a proposito della favola dell’Uomo della sabbia, Freud evoca la paura dell’accecamento attraverso i racconti terrorizzanti della bambinaia rivolti al piccolo protagonista Nathaniel. In questi racconti, il mago getta la sabbia negli occhi dei bambini che non vogliono dormire: «gli occhi sanguinanti balzano fuori dalla testa» (Freud, 1919, p. 89). Il tema dello sguardo ferito e che ferisce, rappresenta il filo rosso in grado di legare alcuni aspetti del perturbante sollevati da Freud con elementi che caratterizzano riti divinatori e possessioni rituali. Nella cura del disagio mentale di alcune etnie senegalesi presso l’ospedale di Fann a Dakar, l’approccio psichiatrico occidentale si intreccia con l’opera dei guaritori locali (Rosso, 1984). L’universo africano è impregnato da una tradizione mitologica che struttura le relazioni socio-familiari dove tutto è riconducibile ad una causalità mitico-religiosa. In una collettività che non tollera l’angoscia del non noto e l’imponderabilità del caso, l’individuo è collocato al punto di intersezione tra due assi, uno perpendicolare diacronico che lo articola al mondo degli antenati e l’altro orizzontale sincronico che lo collega alla comunità di cui si sente parte. L’appartenenza a strutture di gruppo rinforzata dai riti di passaggio rinsalda questi legami e pone l’individuo in un punto preciso della scala gerarchica. Come notano Henri Collomb (1978)[3] e la sua équipe la stessa malattia mentale si inserisce in un complesso sistema di rappresentazione tradizionale tra cui quella denominata Stregoneria antropofagica. Lo stregone antropofago, una sorta di “elemento culturale del perturbante” è considerato l’essere immaginario terribile che catalizza le angosce della collettività e si rende responsabile di atti di “divorazione” simbolica. La sua azione si esercita attraverso lo sguardo (Tabanelli et al., 2014) tramite la “siderazione visiva” e i pazienti colpiti sostengono che lo stregone divori loro il “fit” o l’energia vitale provocando la malattia. Tra le malattie più frequentemente trattate dai guaritori locali vi è la psicosi puerperale o psicosi di filiazione (Guyotat, 1980), infatti nel post partum il fantasma persecutorio evocato dalla stregoneria antropofagica sembra incarnarsi nel neonato che diviene per la madre un simbolo demoniaco e terrifico. Quando si rompe l’equilibrio narcisistico della coppia madre-bambino e la madre, essendo malata, non è in grado di integrare il bambino nella filiazione, l’intero gruppo clanico si sente minacciato (Guyotat, Agossou, Cappadoro, 1981). L’universo magico tradizionale costituisce il doppio fantasmatico della società tribale e l’immagine dello stregone che si appropria dell’identità della madre o del bambino, stravolgendo l’equilibrio della coppia, realizza una diade mostruosa che necessita della funzione separante e riparativa del guaritore attraverso precise ritualizzazioni. Allo stregone agente della possessione a cui si contrappone il guaritore che officia il rito divinatorio, si inserisce un “terzo culturale” rappresentato dal malato, i suoi familiari e parte della collettività che strutturano il rito. Il complesso sistema di credenze tradizionali e il culto degli antenati chiama in causa anche una serie di spiriti ancestrali, benigni e maligni, ritenuti responsabili delle malattie come i Tuur e i Rab al centro di altri rituali terapeutici. Un particolare rito chiamato Ndöp[4] comprende un maternage regressivo dove la vittima-paziente è bagnata dal sangue sacrificale di un animale votivo.

 

 

Per concludere: il doppio/perturbante nell’era digitale

 

In questa epoca di profonde mutazioni antropologiche in cui assistiamo alla velocizzazione dei processi, il perturbante e le sue forme post-moderne riflettono la decadenza (o la variazione?) di un ordine simbolico consueto. La vistofilia ad esempio o «l’insieme dei fenomeni che utilizzano la vista per evitare l’insight» come sottolinea Bollas (2015, p. 424) e l’identificazione fusionale con gli altri trionfano all’interno di una dimensione di orizzontalismo nella quale il pensiero verticale scompare a favore di quello orizzontale. Nel riprendere la dialettica animato/inanimato, possiamo considerare il robot o l’uomo artificiale come una nuova forma di doppio perturbante? Nel mondo occidentale la curiosità per i progenitori dei robot, gli automi, si sviluppa nella seconda metà del settecento. Ricordiamo l’automa scacchista “il turco” di Wolfang von Kempelen (1734-1804) studiato in seguito da Allan Poe e oggetto di un suo racconto (1849). Da allora molta strada è stata percorsa fino allo sviluppo degli androidi che colorano di perturbante la storia della tecnica.

Nel 2016[5] il costruttore di robotica, Hiroshi Ishiguro presenta in Italia l’androide Geminoid, un alter ego sintetico ovverossia la copia esatta di se stesso. Ne possiede 4 versioni che rispecchiano le sue modificazioni fisiche invecchiando con lui. Nell’intervista a lui dedicata evoca le caratteristiche culturali e religiose del suo paese, l’influsso dell’animismo e l’idea di una tecnologia come alleata: la vita digitale è considerata come una delle tante forme di vita del pianeta e gli androidi una nuova specie. A proposito dell’empatia artificiale o dell’inserimento di emozioni negli androidi attraverso sofisticati software, egli non concepisce la differenza occidentale tra reale e non reale. Un altro studioso giapponese, Masahiro Mori (1974) solidale alla tradizione orientale che coniuga diversi livelli di pensiero in una sorta di sincretismo, sostiene che i robot hanno dentro di sé la natura di Buddha cioè il potenziale per arrivare alla “buddhità”, non trascurando così le implicazioni metafisiche della robotica. Sempre a Mori (1970) dobbiamo l’interessante concetto di avvallamento del perturbante o uncanny valley illustrato da un grafico che disegna una curva seguita da un avvallamento (Longo, 2016). Nel grafico si spiega il motivo per cui siamo invasi da una sensazione di turbamento a confronto di artefatti che superano i confini del “simile” per diventare “identici” all’originale. L’androide diventa inquietante quando non è un robot che somiglia all’uomo, bensì un uomo che non sembra essere del tutto umano. Secondo questo grafico, in un primo tempo proviamo simpatia nell’osservare la similitudine, ma più cresce la somiglianza dell’artefatto, maggiore è la nostra sensazione di spaesamento e di repulsione. La cunetta o il punto più basso del grafico corrisponde all’avvallamento del perturbante. La curva risale alla vista di arti artificiali o di marionette fino a raggiungere il gradimento massimo quando si tratta di esseri umani.

Per noi, gli androidi di oggi e la bambola/automa Olimpia del Perturbante di Freud, sono l’espressione di un amore narcisistico spinto all’estremo. Essi incarnano il desiderio infantile di rendere vivo qualcosa di inanimato nonché la perenne tensione verso l’immortalità. E tuttavia, per rispondere al quesito iniziale e cioè se possiamo considerare il robot o l’uomo artificiale come una nuova forma di doppio perturbante ‒ dal momento che quanto è minaccioso e perturbante per una cultura non lo è per un’altra ‒ non possiamo che limitarci, come osservatori, a seguire l’articolazione di pensieri diversi. In altre parole, “a ciascuno il suo perturbante” al di là di una radice comune che consiste nello spingere sempre più avanti i limiti dell’umano vivendo il paradosso di unire lo sforzo conoscitivo al timore primordiale. Dall’uomo alla macchina e viceversa, dall’individuale al collettivo, l’inconscio digitale trionfa allora come novello Uroborus che sigla l’eterno ritorno su noi stessi.

 

 


Bibliografia
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  • Bollas C. (2009). Il mondo dell’oggetto evocativo. Roma: Astrolabio Ubaldini.
  • Bollas C. (2015). La psicoanalisi nell’epoca dello smarrimento: sul ritorno dell’oppresso. Rivista di Psicoanalisi, 61, 2: 411-434.
  • Collomb H. (1978). I modelli della psichiatria africana. Psicoterapia e Scienze Umane, XII, 2: 1-7.
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  • Freud S. (1912-13). Totem e tabù. OSF, vol. 7. Torino: Bollati Boringhieri.
  • Freud S. (1919). Il Perturbante. OSF, vol. 9. Torino: Bollati Boringhieri.
  • Freud S. (1920). Al di là del principio del piacere. OSF, vol. 9. Torino: Bollati Boringhieri.
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  • Kancyper L. (1999). Il confronto generazionale. Uno studio psicoanalitico. Milano: FrancoAngeli, 2000.
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  • Meltzer D. (1981). La comprensione della bellezza e altri saggi. Torino: Loescher.
  • Miramonti A. (2018). Amina. Ritratto di una donna abitata dagli spiriti ancestrali. Torino: Amazon Italia Logistica.
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  • Mori M. (1974). The Buddha in the Robot. Japan: Kosei pub, 1992.
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  • Poe E.A. (1849). Von Kempelen e la sua scoperta. In Poe E.A., Gordon Pym. Firenze: I Capolavori Sansoni, 1965.
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  • Rosso C. (1984). Psicoterapia e magia in Senegal: un’esperienza sul campo. In Atti del XXXV Congresso della Società italiana di Psichiatria. Milano, 1985.
  • Tabanelli A., Scotto Fasano D. (2014). Nascere lontano: Geografie della maternità. Interazioni, 1, 39: 90-102. DOI: 10.3280/INT2014-001008.
  • Tra gli italiani oltre a Moroni (2019), citiamo Funari (1996) e Di Benedetto (2000) con introduzione di Petrella solo per ricordarne alcuni.
  •  Se per Freud l’immagine allo specchio (il doppio) è perturbante perché lo castra dalla percezione e lo espropria della sua immagine, per Lacan il perturbante è l’autonomizzazione dell’immagine divenuta doppio che riduce il soggetto ad un oggetto. Del resto l’assioma di Lacan è che il soggetto è un effetto dell’Altro, egli infatti sviluppa la dialettica identità/alterità nella sua teoria dello stadio dello specchio.
  • A Dakar presso l’ospedale di Fann, lo psichiatra francese Henri Collomb realizzò negli anni ’60 la formazione di una équipe pionieristica pluridisciplinare etno-psicoanalitica in collaborazione coi guaritori locali, la cui opera si sviluppò attivamente per circa un ventennio dando un’impronta durevole alla visione e al trattamento della malattia mentale in Africa occidentale (Cfr. la rivista Psicopathologie Africaine).
  • La cerimonia del Ndöp dura più giorni e tutta la comunità, se lo desidera, vi può partecipare. All’occhio dell’osservatore esterno sembra quasi la celebrazione di una festa, più che una cerimonia di guarigione. Da qui il carattere multiforme del rito che ho evocato: religioso, terapeutico, politico e sociale. Per una descrizione approfondita si rinvia all’ottimo lavoro di Angelo Miramonti (2018).
  • Confronta l’articolo di Jaime D’Alessandro (Repubblica, 21.11. 2016) relativa all’esposizione di Geminoid all’Auditorium Macro presso il museo di arte contemporanea a Roma.