dizionario

Torna a dizionario

Modello operativo interno

Di: Francesca Ortu

Tratto da Interazioni n° 6

Il modello operativo interno, che sotto alcuni aspetti particolari può essere considerato equivalente al tradizionale concetto psicoanalitico di oggetto interno, costituisce un insieme di norme coscienti e/o inconsce che consentono di organizzare l’informazione relativa all’attaccamento. E’ quindi definibile come schema cognitivo-affettivo delle relazioni complementari tra il Sé e le sue figure di attaccamento.

Il concetto di Modello Operativo Interno fu proposto originariamente. nel 1943, dallo psicologo cognitivista K.J. Craik, che lo aveva definito una sorta di “mondo imitativo”, e cioè una struttura mentale che conserva la configurazione temporale e causale dei fenomeni del mondo reale sui quali l’individuo poteva operare per considerare possibili azioni alternative nel mondo. Il concetto fu poi utilizzato da Bowlby nella accezione di “imitazione del mondo”, conferitagli peraltro nel 1964 dallo psicobiologo J.Z. Young. In A Model of the Brain, Young aveva sostenuto, sulla base di dati tratti dalla sperimentazione sugli animali, l’ipotesi che il cervello fosse in grado di costruire – «al pari dell’ingegnere che costruisce un modello della struttura che intende modificare – delle rappresentazioni dell’ambiente di vita. dei modelli del mondo»; questi ultimi, opportunamente manipolati, avrebbero consentito di modificare il mondo reale da essi rappresentato. Bowlby cita in effetti Young quando, nel I volume di Attaccamento e perdita (1969) propone il concetto di Modello Operativo Interno (Internal Working Model) – sottolineandone gli aspetti di costruzione dinamica – per designare la conoscenza che l’uomo si costruisce nel proprio ambiente. Secondo Bowlby, il concetto di Modello Operativo Interno è non solo plausibile ma anche essenziale quando si voglia comprendere il comportamento umano. L’ipotesi di un modello operativo interno concorderebbe anzi «con la conoscenza introspettiva che noi abbiamo dei nostri processi mentali». Nel II volume di Attaccamento e perdita (1973) il concetto di Modello Operativo Interno viene poi utilizzato in modo specifico per descrivere gli stati mentali interni all’attaccamento. In particolare, Bowlby sostiene che «la formulazione in termini di modelli operativi interni non sarebbe altro che un modo di descrivere, in termini compatibili con la teoria dei sistemi, le idee tradizionalmente formulate in termini di ‘introiezione di un oggetto’ e ‘immagine dell’lo’». La formulazione in termini di modelli operativi interni sarebbe inoltre dotata, rispetto alla formulazione tradizionale, di una maggiore precisione descrittiva e consentirebbe, dunque, la costruzione di un quadro teorico più facilmente adattabile alla costruzione e realizzazione di ricerche empiriche. Dopo aver sostenuto la plausibilità dell’ipotesi che «ogni individuo si costruisca dei modelli operativi del mondo e di se stesso nel mondo, con l’aiuto dei quali percepisce gli eventi prevede il futuro e costruisce i propri programmi» Bowlby ne identifica una caratteristica chiave nella rappresentazione di «chi siano le figure di attaccamento, di dove le si possa trovare e del modo in cui ci si possa aspettare che reagiscano, nonché della propria desiderabilità e accettabilità agli occhi delle proprie figure di attaccamento». Nel considerare l’influenza dei processi evolutivi e interpersonali nella costruzione dei modelli operativi del Sé e della figura di attaccamento, Bowlby sottolinea inoltre come questi modelli emergano dalla ripetuta esperienza di modelli di interazione e siano dunque sempre complementari. Dalla loro interazione e dalle peculiarità della loro struttura dipende dunque «la capacità di un individuo di prevedere l’accessibilità e responsività delle proprie figure di attaccamento» nonché la sua fiducia che «le figure di attaccamento siano in generale disponibili e la sua paura… che esse non siano disponibili: di quando in quando, di frequente, nella maggior parte dei casi» (Bowlby, II, 260).

I recenti sviluppi della teoria dell’attaccamento — e ci limitiamo qui semplicemente ad accennare all’importanza degli studi di M. Ainsworth sul passaggio dai modelli di comunicazione madre- bambino alla formazione di modelli operativi interni e di M. Main sugli effetti delle esperienze infantili della madre sulla sua relazione con il bambino e sulle sue capacità genitoriali — hanno contribuito a spostare l’attenzione dal livello di comportamenti osservabili a quello dell’organizzazione mentale interna di tali comportamenti, ponendo, inoltre, in primo piano il problema della continuità e dei cambiamenti del modello operativo. I modelli operativi interni vengono, dunque, sempre più utilizzati nell’accezione di rappresentazioni mentali dinamiche del Sé e degli altri dotate di componenti sia affettive che cognitive, completamente o prevalentemente inconsce, che si costruiscono sulle immagini soggettive che il bambino si forma delle proprie relazioni con le figure significative. I modelli operativi interni guidano successivamente il soggetto nella valutazione che egli fa degli altri e di sé e nei comportamenti nelle diverse circostanze di vita. Essi finiscono dunque per configurarsi, in ultima analisi, come una sorta di “reti rappresentazionali altamente gerarchizzate” dove rappresentazioni di ordine più elevato o più globali comprendono più schemi o rappresentazioni specifiche. Alcuni autori che sottolineano il valore di costruzione adattiva dei modelli operativi interni, sostengono (vedi ad esempio Margareth Ricks, 1985) la compatibilità del concetto di modello operativo interno con la self theory di Epstein, che concettualizza il Sé come “una teoria-sé” costituita da postulati maggiori e minori, derivati induttivamente da esperienze emotive significative e organizzati gerarchicamente. In questa prospettiva teorica quindi, i modelli rappresentazionali delle relazioni di attaccamento vengono considerati come un sistema di postulati in un sistema concettuale individuale, dove le generalizzazioni più ampie, riguardanti le figure di attaccamento, acquistano il valore di postulati maggiori. È così possibile prendere in considerazione la crescita e la trasformazione delle teorie personali della realtà. Parlare di modelli operativi interni del mondo, del sé e dell’altro, come ha sottolineato I. Bretherton, nel 1994, significa dunque parlare di un funzionamento più o meno coordinato di rappresentazioni o schemi organizzati gerarchicamente da un livello vicino all’esperienza a un livello globale/astratto dove le diverse situazioni di adattamento ai compiti evolutivi vengono concettualizzate in termini di modelli rappresentazionali di Sé e del mondo. In questo senso, i modelli operativi interni, che sotto alcuni particolari aspetti possono essere considerati equivalenti al tradizionale concetto psicoanalitico di oggetto interno, rappresentano in definitiva «una specie di filtro per la ricezione e l’interpretazione dell’esperienza interpersonale e come una specie di stampo che modella le caratteristiche della risposta che si può osservare» (M. Ainsworth, 1976). Costituiscono dunque «un insieme di norme coscienti e/o inconsce che consentono di organizzare l’informazione relativa all’attaccamento, permettendo o limitando l’accesso a tale informazione, in rapporto a esperienze, sentimenti o idee concernenti l’attaccamento stesso» (Main, 1985, p. 109). In definitiva, i modelli operativi interni sono definibili come schemi cognitivo- affettivi delle relazioni complementari tra il Sé e le figure di attaccamento (Bowlby, 1988, Bretherton & Waters, 1985; Parkes, Stevenson-Hinde, Marris, 1993), e vengono quindi intesi non solo come passivi filtri di esperienza, ma piuttosto come «organizzatori del comportamento individuale che attivamente riproducono esperienze relative alla storia relazionale» (Sroufe & Waters, 1977); essi cioè rappresentano una «componente integrale delle condotte di attaccamento determinando la valutazione dell’esperienza e il comportamento» (Main, 1985, p. 111). Il punto centrale della teoria dell’attaccamento finisce dunque per essere il postulato che il bambino si costruisca dei “modelli operativi interni” di sé rispetto agli altri: si presume che questi modelli esistano prevalentemente al di fuori dell’area della consapevolezza e che influenzino il comportamento nella costruzione di nuove relazioni. Essi sembrano inoltre fornire un contesto di base per le successive transazioni con l’ambiente, in particolare per quanto riguarda le relazioni sociali, perché forniscono «le regole anche per la direzione e l’organizzazione dell’attenzione e della memoria, regole che permettono o limitano l’accesso da parte dell’individuo a certe forme di conoscenza del Sé e la figura di attaccamento» (Main, 1985, p. 122). La ricerca attuale (vedi ad esempio Sroufe) tende dunque a sottolineare come i modelli operativi interni siano delle costruzioni adattive, formate e plasmate non soltanto dall’esterno, modellatesi nel tempo, ma anche soggette a cambiamenti e la cui stabilità deriva dalla capacità del bambino di crearsi un proprio ambiente (scegliendo quali rapporti ricercare, a quali attività prendere parte, ecc.) congruente con i propri modelli operativi interni.


Bibliografia
  • Ainsworth M.D.S. (1989), “Attachments Beyond Infancy”, American Psychologist, vol. 44, n. 4, 709-716.
  • Bowlby J. (1988), Una base sicura, trad. it., Raffaello Cortina Ed., Milano, 1989.
  • Bowlby J. (1969), Attaccamento e perdita, 1: l’attaccamento alla madre, Boringhieri, Torino, 1972.