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Sulla virilità

A cura di: Angelo Villa

Si è soliti ritenere che la questione della donna e, più specificatamente, quella della femminilità costituiscano l’ambito più problematico del discorso islamico, una volta considerato in una prospettiva socio-culturale. Ciò non è, a tutti gli effetti, esatto. O, per lo meno, è una priorità concettualmente mal collocata, poiché essa altro non è che l’esito di come è posta e mantenuta un’altra sessualità, quella cioè maschile. In questo senso, l’ordine logico di interpretazione della fenomenologia della sessualità nell’Islam andrebbe quanto meno invertito. Non foss’altro per reperire i necessari nessi causali. Stupisce, del resto, a fronte della copiosa e spesso manierata letteratura dedicata alla donna nell’Islam l’assenza di contributi o, anche di debita attenzione, alla sessualità maschile e, in particolare, a quel suo tratto caratteristico che sembra identificarla come tale, fondandola e mantenendola in modo pressoché esclusivo secondo quella sua modalità specifica. Questo tratto, se così lo vogliamo denominare, è, per l’appunto, tanto intellettualmente trascurato (e perché? vien da chiedersi) quanto, nel contempo, oggettivamente e quotidianamente dominante in vari contesti sociali islamici che tende, di conseguenza, a uniformare secondo i propri dettami, impliciti o espliciti che siano. La posizione della donna ne è determinata di rimando, poiché quel che identifica questo tratto che chiameremo virilismo è il tentativo di fornire una rigida organizzazione del campo della sessualità che ponga al suo centro quella maschile. Inevitabile, dunque, la contrapposizione che ne discende in rapporto a quella femminile. In termini di potere, il divario non potrebbe essere più netto e marcato. Sia come contenuti che come forma. In base ai primi, il virilismo viene a strutturarsi come obbligatoriamente antagonista al continente oscuro della sessualità femminile, vissuta come una potenziale minaccia al suo esercizio e dominio. In base alla forma, il virilismo si palesa come espressione di una dimensione, per così dire, unificata e semplificata della sessualità che fa obiezione all’enigma di quella della donna o, per dirla con Lacan, delle donne, al plurale. Affrontare, dunque, il tema del virilismo significa fare i conti con un nodo alquanto scabroso e inestricabile dell’islamismo, dove vengono a convergere il sessuale e il religioso, il sociale e il politico. È in questo senso che abbiamo alterato il riferimento alla virilità in uno più ristretto e rigido, che ne rappresenta la sua proiezione ideologica, quella accordatagli dal suffisso “ismo”, poiché di questo alla fine si tratta. Un’ideologia da intendersi in un’accezione più gramsciana che tradizionalmente marxista, da cogliersi cioè non come qualcosa di artificiale e sovrapposto meccanicamente, come un vestito sulla pelle, ma «come la pelle che è organicamente prodotta dall’interno dell’organismo biologico» (Gramsci, 1975, p. 337). Virilismo, dunque, è qui la consacrazione socialmente riconosciuta della virilità[1], vocabolo di origine latina, da vir, uomo. Di questa virilità, il virilismo costituisce la sua accentuata esasperazione in un duplice senso. In un primo, il virilismo si configura come una sorta di ostentazione di quella virilità cui, a detta di Lacan, sarebbero solo le donne a credere. Sia come sia, è un effetto di parata, come la ruota del pavone, che è il rovescio speculare di quella mascherata che Joan Riviére, in un celebre articolo del ’29, individuava come tipico del porsi femminile. Va da sé, tuttavia, che il rischio che la parata si trasformi o sfoci in una mascherata non è, di per sé, escludibile a priori. I confini non sono sempre così netti. In un secondo senso, se il virilismo è un’ideologia è in virtù del fatto che un atteggiamento di questo stampo non è discrezionalmente appannaggio di un singolo individuo di sesso maschile che può decidere di farlo suo o meno. Se parliamo di ideologia è perché esso permea un’intera società o cultura. Non è, insomma, un fatto meramente personale, il virilismo è un elemento destinato ad accaparrarsi una sua valenza simbolica, non senza, in questo passaggio, trascinarsi appresso un’indebita ipertrofia immaginaria, per altro, facilmente prevedibile[2]. Di fatto, ciò lo porta ad assumere una configurazione valoriale di natura ambiguamente super-egoica, i cui ritorni in chiave sintomatica non mancano di segnare, seppur in maniera ovviamente diversa, l’economia libidica di soddisfazione sia dell’uomo che, anche, della donna.

La virilità o, meglio, insistiamo, il virilismo finisce per dare sostanza, in modo manifesto, a quella sessualità che, confrontata con le altre due grandi religioni monoteiste, l’Islam non sembra aver rimosso o occultato con vergogna, fosse anche a patto di alimentare le fantasie di un occidentalismo frustrato ad uso e consumo di quell’orientalismo denunciato, a suo tempo, da Said. L’aperto riconoscimento della sessualità nell’Islam non è, d’altronde, separabile dalla priorità accordata a quella maschile, una centralità, a sua volta, non disgiungibile dalla figura di Maometto. Personaggio storico imprescindibile nella storia musulmana, di fatto un modello ideale per i credenti, la cui attualità e pervasività è fuori discussione nella cultura islamica, ben più di quello che possa essere Cristo per i cattolici o Mosè per gli ebrei.

Maometto non è Dio, per quanto, a fronte del rifiuto drastico di associare Allah con figure umane, il profeta musulmano, e la sua stessa vita[3], ben si prestano a incarnare nell’immaginario del credente una presenza unica, prossima al divino. Gli avvenimenti della sua esistenza, raccolti nei cosiddetti “hadith”, sono oggetto di culto e riferimento a tutt’oggi. Maometto giunge alla fine dei suoi giorni dopo aver ottenuto il pubblico riconoscimento che auspicava. È indiscusso capo politico e religioso, un vincente. A Medina, dove era emigrato da La Mecca, ha combattuto battaglie, guidato assalti a carovane del deserto. Già a partire dai quattro califfi che gli succederanno, i cosiddetti califfi ben guidati (tranne il primo, gli altri scomparsi a seguito di una morte violenta) l’espansionismo arabo islamico è sin da subito connotato in maniera fortemente aggressiva, violenta.

Di sé, Maometto diceva d’amare le donne, i profumi e la freschezza dello sguardo durante la preghiera.

Le donne, e il problema stesso del profumo che oggetto analitico non è forse così separabile da quello della femminilità, sono al centro delle sue passioni. Un argomento come quello della poligamia, più e più volte richiamato, a torto o a ragione, non vi è del tutto estraneo. Così come, ancora, le famose vergini promesse in paradiso, le “spose purissime” (vedasi Corano, 2, 25; 3, 15; 4, 57), “bellissime d’occhi come bianche perle celate” (37, 48-49), “fanciulle dai grandi occhi neri” (44, 54), “belle come rubino e corallo” (55, 58). Il Corano, del resto, si rivolge comunque agli uomini (“Ti chiederanno il tuo parere sulle donne” (4, 127)[4], si spinge ben più avanti delle tradizioni tribali dell’epoca. È, dunque, in relazione a questa prospettiva che sono poi considerate le donne. La quarta sura detta, per l’appunto, “delle donne”, invita a trattarle comunque “con gentilezza” (4, 19), per quanto non manchino accenti fortemente maschilisti: “Gli uomini sono preposti alle donne, perché Dio ha prescelto alcuni esseri sugli altri e perché essi donano dei loro beni per mantenerle; le donne buone sono dunque devote a Dio e sollecite della propria castità, così come Dio è stato sollecito di loro; quanto a quelle di cui temete atti di disobbedienza, ammonitele, poi lasciatele sole nei loro letti, poi battetele; ma se vi ubbidiscono, allora non cercate pretesti per maltrattarle…” (4, 34).

Nel bene come nel male, dunque, è in quella posizione di oggetto che le donne sono situate nel testo coranico, coerentemente con altri oggetti causa di trasporto libidico per l’uomo. Una collocazione che, a onor del vero, stride con le caratteristiche delle due donne che, più di altre, hanno segnato la vita adulta del profeta. Donne dalla forte personalità, poco inclini a sottomettersi acriticamente sia alle rivelazioni di Maometto che ai costumi dell’epoca. Si pensi alla sua prima moglie, Khadiga, vedova e più anziana di lui, quasi il doppio degli anni, una madre di fatto, presso cui era alle dipendenze come carovaniere; e poi si pensi alla “figlia”, la carismatica Aisha, sposata quando aveva sei anni; il padre di lei (che successe al profeta dell’Islam) la consegnò in dono a Maometto, episodio che gli valse l’accusa di pedofilia da parte dei suoi detrattori. La prima, Khadiga, coraggiosamente sostiene Maometto, confuso, smarrito, messo duramente alla prova dalle rivelazioni divine, talmente angosciato da trovarsi sul baratro del suicidio. La seconda, Aisha, impavida, disinibita e acuta, capace addirittura di porre in dubbio talune esternazioni divine chiamate a legittimare i desideri sessuali dello stesso Maometto[5].

Il tema della virilità è altresì sollecitato, a mio parere, a supplire o comunque a integrare quello classicamente freudiano della paternità che, nell’Islam, appare quanto meno anomalo allorché considerato rispetto ai paradigmi tradizionali della teoria del maestro viennese. Come puntualmente rilevato, tra gli altri, dalla Kristeva o da Zizek, per esempio. È un aspetto, tuttavia, che se non frettolosamente archiviato in una scontata categoria di giudizio (o di pregiudizio?), risulta d’estremo interesse clinico e teorico poiché pone in risalto un intreccio che è utile indagare e che, probabilmente, si trova anticipato nella biografia di Maometto, quello cioè inerente un certo culto della virilità e della prestanza, da un lato, causalmente connesso, dall’altro, con una genesi dalla chiara impronta materna. La virilità e, più ancora, il virilismo partecipano, specie nell’Islam, di questa strutturale ambiguità che sembra accostare quel che sembrerebbe distante o addirittura in antagonistico conflitto. Isoliamo due punti, due piccole guide che possono servire a reperire una via d’approccio più circostanziata all’argomento.

Primo punto. Cos’è il virilismo o, se vogliamo, la stessa virilità? Su cosa si basa? Il ricorso alla psicoanalisi è qui indispensabile, per quanto sfoci su uno dei problemi da sempre più dibattuti nella sua stessa elaborazione, da Freud in poi. Il maestro viennese poneva al centro della vita sessuale umana, per gli uomini come per le donne, il fallo, da intendersi equivocamente sia come l’organo maschile, cioè il pene, che come oggetto simbolico. Un’ambi­guità concettuale che lo stesso Freud non risolve in maniera definitiva nel corso della sua opera e che ritrova una sua eco decisa sia nella pratica clinica che nel discorso sociale. Si pensi, ad esempio, a un testo alquanto tardo di Freud, siamo già nel ’25, che assume un carattere quasi testamentario («…Il tempo davanti a me è limitato e non lo trascorro interamente al lavoro, sicché non ho più tante occasioni di fare nuove esperienza…», p. 208) dal titolo programmatico Alcune conseguenze psichiche della differenza anatomica tra i sessi. In esso, il padre della psicoanalisi indica, infatti, la portata complessiva dell’intero fenomeno, il suo doppio risvolto: la sua origine organica (la bambina, sprovvista di pene, «l’ha visto, sa di non averlo, e vuole averlo» p. 211), ma altresì congiuntamente l’intero processo rappresentazionale e libidico che attorno a tutto questo si organizza (il complesso di mascolinità, l’invidia del pene…). Quest’ultimo reperisce il suo luogo di sintesi in quella che Freud definisce un’equazione simbolica che implicitamente suppone una reiscrizione in forma valoriale del pene, da intendersi qui propriamente, come fallo. Operazione che comporta nel medesimo tempo una separazione dal corpo in quanto tale. Nell’equazione indicata da Freud, il fallo è, insieme, un operatore della simbolizzazione, il metro che seleziona gli oggetti psichici tra di loro, governandone la loro commutabilità e nel medesimo tempo è anche quel che assegna valore a un singolo oggetto. Il fallo risponde insomma sia di quel che supporta l’equazione che degli oggetti implicati. In questa logica, per la donna, il bambino prende il posto del pene mancante, ma lo stesso bambino è a sua volta assimilabile ad altri oggetti, quali il sapere, il denaro e così via. Il passaggio, se così lo possiamo denominare, dal pene al fallo inerisce l’entrata del singolo, uomo o donna che sia, in una circolarità di scambio degli oggetti, che alimenta l’economia del desiderio.

L’equazione, per l’appunto, simbolica inaugura una de-corporizzazione della dimensione fallica. Lacan in uno scritto del ’58 dal significativo titolo La significazione del fallo esaspererà questa lettura. Se il fallo è l’indice della significazione propria al desiderio, se il fallo è dunque il significante della mancanza, il ruolo del pene, considerato come organo maschile, vi è del tutto relativizzato. Tesi che, all’epoca, incontrò il favore del movimento femminista. Anche se, nel corso degli anni del suo insegnamento, Lacan temperò la sua posizione, ripiegando di fatto su concezioni più prossime a quelle freudiane. Inutile ribadire, quanto a tutt’oggi, tale questione, così intimamente connessa al discorso psicoanalitico, sia di cruciale importanza e di costante attualità. Interrogata dentro e fuori il campo proprio alla psicoanalisi, si pensi alle ricerche di Foucault, di Judith Butler che parla del fallo lesbico e così via.

Ora, sulla scorta di quanto detto, quel che qui ci preme sottolineare è quanto meno l’impossibilità di ricondurre in maniera automatica il pene al fallo. O, più precisamente, di presumere, quasi fosse un dato di fatto incontestabile, l’omologazione tout court del pene al fallo, il che comporta una iper-valutazione del primo come materiale incarnazione del secondo. Come se l’equazione simbolica venisse schiacciata su un’evidenza inoppugnabile che colloca il fallo nel pene, legandolo indissolubilmente ad esso. L’ideologia che vi si genera attorno fa da collante tra i due, tracciando una netta linea di distinzione tra chi ce l’ha, il pene e quindi il fallo, e chi non ce l’ha. La differenza anatomica organizza così la differenza sociale, la ripartizione dei ruoli tra uomini e donne. Ma cosa significa, poi, averlo? La domanda appare meno scontata di quel che sembra ed è suscettibile di promuovere forme di soddisfazione non così prevedibili in entrambi i sessi. In ogni caso, l’equazione simbolica lasciava intravedere nel passaggio (o scarto?) tra il pene e il fallo la cifra misteriosa che anima il desiderio, proprio in virtù del fatto che, se torniamo alla bambina “freudiana”, lei desidera “qualcosa” nell’esatta misura in cui ne è priva. È il non possesso, e dunque la percezione della sua frustrazione, a indurre una ricerca, a innestare una feconda inquietudine, non aliena di una certa complicità con l’insoddisfazione. Ma, nella cultura machista accade l’inverso. Il compito di chi ha il pene, cioè qui il fallo, è più quello di gestire che non di confrontarsi con il desiderare, cioè di “amministrare” quel potere che l’avere il pene gli attribuisce, così perpetrando il ruolo che l’organo gli assegna e che lo impegna a riproporre. La mitologia virilista alimenta un’istanza super-egoica e idealizzata dello psichismo che fomenta un’immagine di sé che l’uomo innalza sull’altare di un orgoglio, cui fa da controcanto il terrore che dietro ad esso si palesi l’ombra del più insopportabile tra gli affetti, quello della vergogna. Il divario tra l’alto e il basso non potrebbe qui risultare meno profondo, ma soprattutto più strettamente collegato, poiché l’innalzarsi orgoglioso del narcisismo machista ha come esito immediato la constatazione che più il singolo vi aderisce o si impegna a incarnarlo più avverte l’abisso in cui potrebbe precipitare non appena non ne fosse più all’altezza. Il ricorso all’ipocrisia o alla menzogna o, ancora, a una sospetta teatralità possono fungere da indispensabili supporti per un’abusata parata prestazionale. Fosse anche allo scopo di contenere o dissimulare i costi emotivi, psichici che la stessa comporta. Ciò tocca, inevitabilmente, anche quel che è il risvolto clinico che se ne può desumere e che riguarda non tanto l’aspetto sintomatologico che ne può risultare (anche nella sfera sessuale, ma non solo) quanto la sua trattabilità terapeutica. Il virilismo si presenta, in maniera manifesta, come un rigetto della castrazione che pone, in questo caso, come sua conseguenza diretta il rigetto di una parola che possa esprimere la mancanza, dar voce a un disagio, senza che ciò possa risuonare come lesivo dell’immagine che l’uomo deve dare di sé agli altri, davanti agli altri, nonché a se stesso. Ciò condanna l’uomo a un silenzio che, nell’angoscia di fargli anche solo sfiorare la possibilità di sperimentare il brivido della vergogna, tiene distante la verità, come fosse il peggiore dei mali.

Secondo punto. Quale contesto socio-culturale fa da cornice, o da causa, al virilismo? Una lettura forse eccessivamente sbrigativa tende a cogliere il virilismo come espressione tout court di una società paternalistica, quasi ne fosse la sua immediata declinazione sessuale. Ciò non corrisponde completamente allo stato delle cose, foss’anche perché la figura del padre e quella dell’uomo “virilista” non sono necessariamente coincidenti tra loro. Se, comunque, il virilismo si palesa in un ambiente dominato in un senso paternalistico, cui fa specchio e, insieme, da reciproco e complice supporto, ciò non toglie che tale ambiente si nutra, e nemmeno troppo sotterraneamente, di un fondamento essenzialmente di tipo materno, senza il quale letteralmente non si reggerebbe sui suoi piedi. Un’interpretazione unilaterale del fenomeno è dunque piuttosto riduttiva e giunge spesso ad assumere un carattere manicheo. Più interessante cogliere le complicità che ne sono alla base. In particolare, ci preme qui sottolineare l’intreccio che la virilità, e ancor più il virilismo, intrattengono con il materno e che istituisce quel tacito patto da cui è proprio la donna o, ricordiamo, le donne, a essere escluse. È noto, lo richiamiamo, il celebre motto di Simone de Beauvoir: donne non si nasce, ma si diventa. La donna e quindi la femminilità è una costruzione a partire da quello che lei non ha o da quello che non c’è (il pene). Se ne deduce una logica che è antitetica a quella su cui si edifica il virilismo, quella cioè del “c’è”. Diciamo di più, il virilismo pare occludere quell’incertezza strutturale che presiede al rapporto tra identità e sessualità fornendole il conforto di un ancoraggio che pretende essere al riparo d’ogni dubbio, quello cioè di un’essenza che lo realizzi[6]. Il virilismo è, in questo senso, un effettivo e operante essenzialismo. Come, d’altro canto, tende a esserlo il materno, a fronte della simbolicità della funzione paterna.

L’essenzialismo inerisce una logica di corpi, di economie di soddisfazione che si esplicitano attraverso il linguaggio di una seduzione primaria che tende a disporsi incestuosamente in contrasto con la sessualità adulta. I lavori sull’argomento di un grande islamista come Malek Chebel[7], sviluppati a cavallo tra lo psicologico e il sociologico, ci pare articolino bene tale questione. La nozione da lui introdotta di ma(n)ternale (“ma(n)ternal”) ci pare piuttosto interessante a questo riguardo. Il neologismo coniuga la parola materno con quella di mantide (religiosa), nota per decapitare il maschio dopo l’accoppiamento. Per Chebel, dunque, il ma(n)ternale è il nome che assegna a un processo di introiezione simbolica o di “divorazione” del bambino maschio da parte della madre affinché questa possa poi ritrovare il suo posto di madre nel rizoma familiare. Nel quadro di una ricerca che Chebel denomina di “psicoanalisi culturale” e che punta ad indagare quella che lui ritiene la fragilità affettiva ed emotiva del mondo arabo, ivi compreso l’attaccamento alle forme più stereotipate di pratiche religiose e all’aggressività che ne consegue, l’autore rimarca come il potenziale fecondativo di una donna si misuri in relazione al numero di figli maschi che mette al mondo. Uno schema antico, ma che sopravvive tutt’ora. Di questo schema, Chebel ne delinea la logica: nella misura in cui la donna araba o musulmana non può esistere come individuo che a partire dal fatto che partorisce dei figli maschi che, a loro volta, genereranno figli maschi, ne risulta che la relazione madre-bambino appare rovesciata in quella bambino-madre, poiché non è la madre che dà la nascita al bambino maschio quanto, al contrario, è il bambino, in quanto maschio, che dà la nascita alla madre. Essa godrà di maggiore autorità in famiglia in quanto genitrice di figli maschi. L’ambiguità della relazione tra la madre e il figlio riposa sull’inversione che si opera tra le due figure. La manternalizzazione partecipa, infine, del mimetismo d’una relazione antropofagica animata da un erotismo eccessivo. L’ipervalorizzazione del pene del bambino si colloca all’interno di questa strategia inconscia che, nel mentre, lo spinge a crescere virilmente, lo fissa inevitabilmente nell’infantile. Conclude Chebel che la relazione che si instaura tra madre e il figlio maschio finisce per avere più posto di quella carnale adulta, sostituendosi agli affetti parentali. Il dramma della reciproca sacrificalità, quella della madre verso il figlio, quella del figlio verso la madre, vi dimorano al centro come la radice più tenace di un patto non detto che ha nella morte il suo non ultimo garante. Può darsi che, paradossalmente, risieda qui il cuore ignorato di quell’infelicità araba che denunciava Samir Kassir.

 


Bibliografia
  • Bedendo R., Guardi J. (2009). Teologhe, musulmane, femministe. Cantalupa: Effatà.
  • Benslama F., Tazi N. (2017). La virilità dell’Islam. Un’analisi dell’affermazione virilista nelle sue determinanti sociali e psichiche. Alberobello: Poiesis.
  • Chebel M. (2015). L’incoscient de l’Islam. Paris: CNRS Editions.
  • Freud S. (1925). Alcune conseguenze psichiche della differenza anatomica tra i sessi. OSF, vol. 10. Torino: Bollati Boringhieri, 1978.
  • Gramsci A. (1975). Quaderni dal carcere. Torino: Einaudi.
  • Lacan J. (1974). La significazione del fallo: Die Bedeutung del Phallus. In Lacan J., Scritti, vol. 2. Torino: Einaudi.
  • Lamrabet A. (2017). Islam et femmes. Paris: Gallimard.
  • Ouardi H. (2018). Gli ultimi giorni di Maometto. Milano: Damiani.
  • Vanzan A. (2010). Le donne di Allah, viaggio nei femminismi islamici. Milano: Bruno Mondadori editore.
  • Villa A. (2018). L’origine negata. Il Corano e la soggettività. Milano: Mimesis.
  • Zupancic A. (2018). Che cos’è il sesso? Milano: Salani.
  • Al timoroso mutismo generalmente riservato all’argomento fa obiezione un testo collettaneo, bello e coraggioso, di Fethi Benslama e Nadia Tazi, La virilità nell’Islam (2017). Un’analisi dell’affermazione virilista nelle sue determinanti sociali e psichiche. Libro che, alla sua originaria uscita in Francia, suscitò un notevole dibattito nel contesto psicoanalitico. Cfr. a tal proposito, il numero 73, 2006/1 di Clinique méditerranéennes.
  •  È, del resto, di quest’anno la messa al bando da parte dell’autorità palestinese delle associazioni gay presenti sul suo territorio.
  •  Vedasi il bel testo di Hela Ouardi, Gli ultimi giorni di Maometto, Enrico Damiani Editore, 2018
  • Si consideri, tuttavia, in proposito il lavoro di ricerca e studio di donne di fede musulmana come documentato in Jolanda Guardi e Renata Bedendo Teologhe, musulmane, femministe (2009) o Anna Vanzan Le donne di Allah, Viaggio nei femminismi islamici (2010), o di Asma Lamrabet Islam et femmes (2017).
  •  Su questo ed altro mi permetto di rinviare al mio testo L’origine negata. Il Corano e la soggettività (2018).
  •  Cfr., ad esempio, il testo di Alenka Zupancic Che cos’è il sesso? (2018).
  • La produzione di Malek Chebel è molto vasta, solo in piccola parte pubblicata in Italia. Per quanto qui menzionato ci riferiamo in particolare al capitolo “Du ma(n)ternel” in L’inconscient de l’Islam (2015).