Interazioni, 2/2004 : 11-20
Isidoro Berenstein (1932-2011)
Psicoanalista con funzioni di training della Società Psicoanalitica Argentina. Autore di numerose pubblicazioni sul tema della famiglia e delle relazioni. È stato membro effettivo della Funzione Educativa dell’Associazione Psicoanalitica di Buenos Aires, Co-Direttore Scientifico del Dipartimento di Famiglia e Coppia dell’Associazione Psicoanalitica di Buenos Aires e Direttore Scientifico del Dipartimento di Famiglia dell’Associazione Argentina di Psicologia e Psicoterapia di Gruppo.
Introduzione
Le famiglie, così come le persone, sono “attraversate” nel corso delle generazioni, oltre che dalle esperienze che vivono, da credenze sul loro funzionamento. Queste credenze di frequente si riferiscono alle origini e a come queste determinano il loro succedersi con un carattere di inesorabile modello di ripetizione. Possiamo chiamare tutto ciò “il destino” e gli avvenimenti familiari sono considerati nella loro determinazione come lo sviluppo di quel destino. A questa modalità di pensiero si associa l’idea moderna di ciò che è genetico nella trasmissione dei caratteri ereditari, davanti ai quali poco o nulla può esser fatto, salvo accettarli e cercare di capirli.
Nell’antichità questa idea era rappresentata dagli oracoli i cui detti enigmatici si compivano in forma inesorabile nonostante l’impegno umano di evitare ciò che in generale era un destino infausto. Destino che si lega anche all’idea di casualità. Tuttavia ciò introduce un’altra modalità di pensiero che si apre all’indeterminato e questo farà parte di una situazione caratterizzata dal susseguirsi di elementi imprevedibili la cui caratteristica è quella di variare da un momento all’altro. Nel primo caso, sono prevalenti nel funzionamento mentale il determinismo e l’unione causale degli accadimenti, mentre nel secondo, quello in cui i fatti e gli accadimenti sono dipendenti dalla situazione, e perciò imprevedibili, prevale l’indeterminatezza. Siamo davanti a due modi di pensare i fatti psichici e vincolari. Il determinismo inconscio, sotto forma di una persistenza nel quotidiano di elementi primari ed infantili, il transfert e la struttura del mondo interno sono pensati in base alla prima modalità di pensiero. Gli effetti dell’essere (Puget, 2001; Berenstein, 2001), la relazione tra soggetti, il ruolo degli altri e l’interferenza (Berenstein, 2004) apportano elementi del secondo modo di pensare. Malgrado rimanga la possibilità di riunire i due modi, dicendo che c’è un poco di ognuno, o che il secondo si articola con il primo, segnalo che di frequente si chiama “articolazione” il lavoro di conferire alla genetica un posto centrale nel determinare tali situazioni, così come si pensava inizialmente.
In seguito mi occuperò di queste due prospettive: il destino come una forza che governa le persone e le famiglie e il destino come prodotto, che si determina dall’agire dei suoi abitanti in una situazione indeterminata.
Il destino come forza. La forza del destino
Giuseppe Verdi compose questa opera nel 1862, il cui libretto si basa su un’opera teatrale di Angel de Saavedra, duca di Rivas, chiamata Don Álvaro o la fuerza del sino1. L’idea del destino come fatalità impregna l’opera di Verdi come una forte impronta propria dell’epoca del romanticismo.
Il dramma si sviluppa intorno all’impedimento ineluttabile che attraverserà la relazione amorosa tra Leonora, figlia del marchese di Calatrava ed Alvaro. Il marchese appartiene a una famiglia nobile e il pretendente di sua figlia ad una di origine meticcia per una combinazione di sangue indigeno-americana. La tenace opposizione del padre ha un finale tragico poiché lo porta ad incontrare insieme gli amanti, ed in quella circostanza Alvaro accidentalmente lo ferisce a morte. Il padre muore, non senza prima proferire una maledizione a sua figlia. Nell’opera, lei canta “Me, pellegrina ed orfana”, dove sembra anticipare o avere un’intuizione della tragedia che accadrà. L’opera mostra esplicitamente ciò che tutte le coppie devono vivere. Come la prova del promesso sposo che deve “uccidere” simbolicamente il padre della sposa per svincolarla dall’oggetto edipico. Deve farlo con la collaborazione della figlia, poiché questa non potrebbe mai farlo da sola. Nell’opera questa collaborazione sembra un fallimento.
La coppia fugge, ma separatamente e presto si stabilisce la credenza in ognuno di loro che l’altro è morto. Carlo, fratello di Leonora, assume la vendetta decide di vendicarsi e inizia la persecuzione del colpevole.
Dobbiamo prestare attenzione alla presenza della figura del fratello della donna promessa in matrimonio; in antropologia si chiama avúnculo, termine latino che designa lo zio materno a svolgere il ruolo di padre, importante per poter cedere la donna al promesso sposo o per determinare gli impedimenti alla coppia nello stabilire il loro vincolo (Lévi Strauss, 1949; Berenstein, 1976). Di fatto, se avessi dovuto scrivere questo articolo nella decade degli 80, sicuramente avrei fatto uno sviluppo dal modello della StrutturaFamiliare Inconscia 2
Tornando all’opera, nell’atto secondo Leonora, in una locanda, riconosce suo fratello travestito da studente, che perseguita la coppia e il destino appare per bocca di Preciosilla, una zingara che predice alla coppia un futuro tragico.
Poi la scena si trasferisce nell’atrio del monastero di Hornachuelos. Brilla la luna e presto albeggerà. Vediamo di nuovo Leonora, ancora vestita con indumenti da uomo, arrivata lì esausta. Chiede perdono alla Vergine e canta: “Madre, Madre, pietosa Vergine”.
Ogni donna promessa in sposa si sente responsabile per la morte simbolica del padre, ma anche perché, nella costruzione della coppia, deve effettuare una rivoluzione copernicana per accettare la sua femminilità e si trova a dover abbandonare simbolicamente anche la madre. Non è facile il compito della donna nel suo laborioso cammino verso la coppia, non lo è nemmeno quello dell’uomo, ma i loro cammini sono differenti.
Nel prosieguo dell’opera, Leonora e Alvaro stanno fallendo nel loro incontro e nella possibilità di formare la loro coppia, gli eventi del destino si stanno compiendo e la coppia osserva gli impedimenti alla sua realizzazione. Una possibilità apparentemente transitoria è rinchiudere Leonora, malgrado lei rifiuti l’ingresso in convento, iniziativa suggerita dal Padre Guardiano (Un chiostro, un chiostro? No. Un claustro, un claustro, no). Alla fine troverà alloggio in una dipendenza del chiostro, in una grotta vicino al monastero.
L’atto III si sviluppa nel contesto della guerra degli spagnoli contro gli austriaci e lì Alvaro e Carlo parlano senza riconoscersi poiché usano false identità. La casualità sembra avvicinarli ma il destino, il segno, è lì presente. Inavvertitamente Alvaro consegna a Carlo un’urna con dei fogli e gli scivola la foto di Leonora. La canzone è “Urna fatale del mio destino”. La credenza nella bontà dell’origine familiare s’impone sulla possibilità di generare un vincolo amichevole con un altro.
Carlo si riempie di felicità quando viene a sapere dal chirurgo che Alvaro si salverà; così potrà lui dargli la morte e compiere la sua vendetta.
Adesso passiamo ad un accampamento. Una pattuglia attraversa la scena. Alvaro è solo, pensieroso, quando entra Carlo. Gli dice chi è, e lo sfida ad un duello. Alvaro resiste, si giustifica dicendo che è stato il destino, e non lui, ad uccidere suo padre, e rafforza la sua vera amicizia verso Carlo. Però costui, che per caso ha avuto notizia che Leonora è viva, cosa che Alvaro non sa, provoca deliberatamente quest’ultimo e lo sfida a duello. Alvaro, pieno di tristezza, decide di ritirarsi in un monastero.
Nell’atto IV, il finale ha come scenario il convento, dove ha alloggiato Alvaro e che si trova vicino alla grotta dove è Leonora. Carlo trova Alvaro e nonostante l’apparente tentativo di evitarlo, durante l’atteso duello Alvaro ferisce il fratello di Leonora. Quando si avvicina il confessore, che altro non è che la sua riconosciuta sorella, Carlo le causa una ferita mortale, infilza il suo pugnale nel cuore della ragazza. Le forze che governano il suo destino portano Alvaro alla disperazione perché egli ascolta che Leonora spera di riunirsi con lui, ma ormai in cielo.
Alvaro sembra un uomo perseguitato dal suo destino fatale, che lo porta a coltivare disgrazie dove passa e a provocare la rovina di tutto ciò che ama e di se stesso. Nell’opera originale, il suo suicidio finale, nel mezzo di una blasfema disperazione, è il tragico finale di una vita, perseguitata da forze misteriose (Martínez e Morales Cienfuegos, 2001).
“Che ho? Terribile sorte! Che in lei regna la morte, E la morte cerco io”
Alvaro crede di essere stato indotto ad agire “dalla forza del destino” sin dalla sua nascita e a causa di questo è una vittima innocente di fattori sociali e razziali che non sono nelle sue mani; è nato doppiamente condizionato. Si chiamò “destino” il compimento del volere degli dei, immodificabile dagli umani. Anche l’appartenenza sociale è stata creduta immodificabile, malgrado i soggetti cercassero di trasgredirla, a volte infruttuosamente, come mostrano le opere del romanticismo. La psicoanalisi dà una versione più elaborata del destino, segnala la sua potenza come forza pulsante determinata dalle esperienze primordiali ed infantili. Così la fusione di Eros e Tanatos, rafforzata dalla relazione con gli oggetti primari, segna il destino dell’Io. Questo deve faticosamente tracciare il suo cammino attraverso il linguaggio e il rapporto con le parole. Anche nella versione psicoanalitica del destino la ripetizione è pronta a compiersi.
Gli impulsi aggressivi e omicidi impregnano le azioni dei personaggi: il marchese di Calatrava che non può rinunciare all’amore possessivo per sua figlia, Alvaro che uccide “senza volere” il padre e il fratello di Leonora e poi uccide se stesso, Carlo che uccide sua sorella, ecc. La trama descrive un insieme di individualità, specialmente quella di Alvaro che non ha potuto far nulla contro il suo destino. Non sono considerati e non fanno parte dei pensieri dell’autore, gli altri elementi di questa situazione: il conflitto sociale che impregna la relazione tra padre e figlia, tra il fratello della fidanzata e la promessa sposa, la difficoltà della coppia nel cercare di purificare l’istinto distruttivo della famiglia di Leonora, il valore fondamentale dell’intolleranza a ciò che è socialmente diverso, ecc.
Il destino-situazione3
Il vincolo tra i soggetti nella parentela è il risultato di una costruzione complessa. Devono risolvere, nel contesto di ciò che li designa come “parenti”, le vicissitudini sulle somiglianze e le differenze e specialmente dell’alieno (Berenstein, 2004). Caratterizzeremo questa alienazione come ciò che in una relazione è irrimediabilmente diverso, ciò che sempre permane come tale. È quello che supera la proiezione dell’identificazione con l’oggetto interno dell’altro. I parenti devono risolvere ciò che nelle famiglie suscitano le credenze, che a volte derivano dai predecessori (genitori o nonni) e tutti gli altri si piegano a queste. Altre credenze si costruiscono sulle vicissitudini dell’insieme, dove ogni individuo le mantiene.
Se le credenze familiari sostengono l’idea del destino come forza, la concezione del soggetto è determinata dalle sue identificazioni con gli oggetti assenti, attraverso i quali ottiene la sua identità. La relazione tra i soggetti genera un effetto attraverso l’agire che produce un destino in ogni situazione. È una produzione dell’insieme. Si tratta di due concezioni che possono essere complementari, supplementari e a volte sono considerate escludenti. Accade che nell’agire in un insieme vincolato come la famiglia, questa si modifica e tale modificazione eccede e cambia il destino. Nel passare a far parte di un insieme, il destino di questo muta.
Vediamo la seguente vignetta. Una coppia sta parlando delle vacanze che cominceranno quello stesso fine settimana, nei prossimi tre giorni. Nella seduta lei chiede al marito, con mia sorpresa, se anche lui andrà, lui dice “devo sempre rispondere: sì mia cara!”. Lei lo guarda con sorpresa e con ironia come se stesse sentendo parlare un estraneo. Gli rimprovera che negli ultimi quindici anni non ha mai saputo se lui sarebbe andato in vacanza con la famiglia, ciò che lei chiama l’insieme formato da lei e i figli. Lui risponde che nel passato, lei andava sola o con i figli. Inizia una lunga ed elaborata discussione sul passato e sulla forza che determina i loro scontri ed il solito avvicendarsi dei fatti. È come sempre e si sentono incapaci nel tentativo di modificare questa forza. Forse il godimento è maggiore nella conferma di quello che pensano rispetto al dubbio che può sorgere se cercano di modificarlo. Questo ha occupato gran parte della seduta. Il terapista gli ha detto che questa maniera di spiegare ciò che sta per accadere, tende a perpetuare e a concretizzare ciò che loro sanno che si ripeterà. Il modo in cui continuano a chiarire e a discutere sulle vacanze di “prima” durante la seduta non fa capire cosa sperano di fare e quel non sapere è l’ostacolo alla realizzazione di quelle vacanze che stanno per iniziare. Non sanno come gestire la situazione in modo diverso rispetto a prima.
Cominciano una serie di rimproveri della moglie verso il marito per la mancanza di una stabilità economica, causata da errori finanziari che hanno portato insicurezze a lei e ai “suoi” figli. Lui risponde che lei lo accusa sempre e lui deve solo obbedire, altrimenti si espone ai suoi malumori. C’è un errore per il quale non possono risolvere ciò che si propongono, i rimproveri, una certa passività di lui di fronte a quello che percepisce come una accusa ed una certa insistenza nella recriminazione. Forse il malessere è dovuto a ciò che non hanno potuto risolvere nel passato e che adesso richiederebbe di fare qualcosa di diverso. Lei gli dice che lui dovrebbe portare le valigie per controllare i vestiti per le prossime vacanze. La risposta di lui è che in materia di vestiti non necessita di grandi cose. Segnalo che controllare i vestiti è un tentativo di vedere come “rivestono” questa nuova situazione di coppia, come disporranno “l’uso” di un nuovo vestito emozionale vissuto in un nuovo vincolo. Le valigie fanno parte di un lento ritorno a casa (nelle sedute rappresenta un lento ritorno al letto) come espressione di un tentativo difficile di costituire un’altra coppia. Non direi “ricostituire” perché “ri” si riferisce al tornare a ciò che erano, a quella coppia ideale, esistente in un tempo di armonia o di innamoramento, ma lontana dai compiti attuali.
Il loro destino sarà ora molto più dipendente da quello che accade nella coppia, qualcosa in più rispetto a due soggetti impotenti, feriti narcisisticamente e aggressivi che cercano di attribuire il fallimento l’uno all’altro. Nell’essere un’“altra” coppia stanno anche costruendo nuovi soggetti.
Questo criterio è sostenuto dall’appartenenza ad un insieme che come coppia o famiglia deve modificare l’identità dei suoi soggetti.
Il vincolo si scontra con la resistenza e con una sorta di “viscosità” individuale che mantiene e compie il proprio destino nell’insieme. Il funzionamento in una struttura “vincolare” si ha grazie ad una serie di operazioni che una famiglia o una coppia deve fare a partire dall’essere in Due4, che è un modo di chiamare l’insieme. L’insieme non è determinato solo dalla “pratica individuale”, ma questa s’impone con frequenza. Per questo il soggetto, in accordo con l’analista, si sente e crea un analista individuale. Ossia, senza saperlo e senza essere coscienti di loro stessi e con l’aiuto dell’analista, rafforzano l’idea del destino come forza. Ci aiuta molto appoggiarci alla nozione di pulsione e spiegare il vincolo da lì. C’è poca differenza tra l’attività dell’analista che interpreta a partire da un’ottica individuale ciascuno dei membri della coppia o della famiglia, e l’attività dell’analista che interpreta la famiglia come insieme, in quanto somma degli individui: per esempio il lutto non elaborato dalla madre per la morte di suo padre, o le frequenti litigate per la spinta adolescenziale di uno dei figli, la sua debordante sessualità o un episodio traumatico del padre quando era piccolo, ecc. Questa tecnica interpretativa conferma che l’insieme vincolare dipende dai destini individuali. Un’altra pratica analitica porterebbe a pensare e ad interpretare che è il disordine vincolare che spinge la madre a permanere nel lutto per il padre, o che porta il padre a persistere nella sua situazione traumatica infantile. Il mantenimento di queste situazioni singolari è il risultato di un’attività vincolare e non solo individuale. Dobbiamo trovare un punto di vista che stabilisca un vincolo tra quei due criteri precedenti.
Di frequente consideriamo un vincolo di coppia come l’unione di due persone che si presume stabile e persistente nel tempo, con un’origine precisa nel tempo e vicissitudini che dipendono da ciascuno. Questo concetto è basato sul criterio giuridico di un’unione davanti alla legge e frequentemente è condiviso dagli psicoanalisti condizionando la mentalità del terapeuta. Il concetto di vincolo nella psicoanalisi deriva dal considerare i legami tra i membri della relazione in ogni seduta e in ogni momento e che tipo di soggetto si configura a partire da questa modalità pratica di relazionarsi. Non abbiamo ancor oggi completamente distinto il criterio di base giuridico dal criterio psicoanalitico che include la rappresentazione e il significato della legge. Ciò che è giuridico, in accordo con la legge sociale, utilizza un registro differente dal lavoro vincolare inconscio e a volte si costituisce come difesa di fronte alle ansie sorte dal generarsi dei vincoli.
Una giovane coppia (rispetto all’età dell’analista) in una seduta, anticipò che avevano a disposizione solo una settimana perché stavano per tornare all’estero, dove vivono attualmente. Erano venuti a trovare le loro famiglie in coincidenza con le vacanze della Settimana Santa. La richiesta delle sedute è stata motivata con una certa urgenza per la gravità del conflitto e per il ridotto periodo di tempo che avevano a disposizione. Avevano liti frequenti e intense dal momento in cui avevano stabilito la data del matrimonio e lo stavano organizzando con tutti i dettagli per celebrarlo entro l’anno: cerimonia civile e religiosa, organizzazione del luogo, invitati, catering, tipo di musica, ecc. Erano invischiati e rivolgevano il loro conflitto nell’ambito giuridico e sociale-familiare. Il valore simbolico dell’unione civile è di fare un passo verso qualcosa di nuovo, differente ed incerto. Malgrado fosse collocato coscientemente nel tempo futuro, per la coppia stava accadendo ora. Nelle sedute, una nota predominante erano i rimproveri su perché le cose commentate ora non erano state dette prima. Lui diceva che prima dei preparativi per organizzare la festa aveva dei dubbi, non era sicuro. “Perché non me lo hai detto prima?” chiedeva la fidanzata. “È che abbiamo difficoltà nel parlare”, diceva lui. “Quali difficoltà?” chiedeva lei forzando la posizione eccentrica rispetto al vincolo. “E … abbiamo anche difficoltà sessuali” aggiungeva lui. “Va bene, abbiamo qualche difficoltà, ma le relazioni sessuali le abbiamo” rispondeva lei. Le cose (la relazione tra loro) avevano cominciato a cambiare dalla morte del padre del giovane, circa da due anni prima, e lei puntualizza che da quel momento il suo promesso sposo aveva iniziato a chiudersi. D’altra parte, la madre di lei è seriamente malata e per questo è attualmente preoccupata e desidera accelerare i preparativi del matrimonio. In base all’acuità del conflitto e alla brevità, secondo il criterio della terapeuta, del loro permanere in città, propose loro di avere sedute tutti i giorni. La ragazza gli rispose che non era possibile perché doveva andare al mare (luogo di vacanza) per vedere la sua famiglia, così come erano rimasti d’accordo tempo addietro.
Vediamo come descrivere questa situazione vincolare. Quello che si chiama “poco tempo” di cui la terapeuta dispone e che loro propongono è “il” tempo nella e della relazione.
È considerato come “poco” paragonato con un tempo supposto ed immaginato che sarebbe “sufficiente” o “adeguato”, ma ciò non descrive la relazione attuale, quello che definisce ciò che c’è (a differenza del tempo del desiderio che definisce ciò che non c’è). “Poco” applicato al tempo, descrive l’esperienza di una restrizione del vincolo di coppia, che a sua volta fa parte della situazione, come si può apprezzare nella seduta. La disparità tra il “poco tempo” e la necessità intersoggettiva, genera questa situazione, dove appare un’idea impossibile: ciò che sta accadendo ora, sarebbe dovuto succedere prima, quando non è accaduto. Questo “prima” risulta da una proiezione al passato di ciò che accade ora. Non c’è un altro “prima” che adesso. Questo passato, quel “prima” dove le cose avrebbero dovuto dirle, li colloca in una situazione vincolare impossibile, angosciante, pressante perché rivela che si richiede un fare diverso da ciò che è stato fatto. Questo li confronta con una impossibilità vincolare. Può essere esemplificata come difficoltà sessuale o come alterazione nello scambio di parole. Quando parlando dicono che non parlano, significa che si sta vivendo qualcosa di vincolante come qualcosa che non esiste. L’impossibile è che fosse accaduto ciò che non è accaduto o che non dovesse esser accaduto ciò che è accaduto. La morte o le vicissitudini dei padri non sarebbero dovute accadere, così non si avrebbero avute le conseguenze, cioè il disordine vincolare. L’elaborazione del lutto come lavoro individuale deve avere un luogo nel mondo interno del giovane, così come la relazione con l’oggetto materno nel mondo della ragazza. Però la causa di quello che accade nella relazione di coppia è definita dall’interno della situazione vincolare e non da ciò che può esser considerato esterno alla stessa. È diverso considerare che il lutto deve “far parte della situazione” rispetto all’essere considerato la “causa” della stessa. Il cosiddetto “atto di matrimonio”, dove il contratto giuridico è il sostegno di un atto simbolico proiettato nel futuro, dà conto del difficile lavoro di iscrizione vincolare tra soggetti che sono stati fino a quel momento individui e manifestano difficoltà nel divenire altri, cioè soggetti di questo vincolo. L’allontanamento dal vincolo matrimoniale è chiamato “ritorno al luogo da dove si viene” o “me ne vado al mare”. Queste frasi descrivono l’enorme difficoltà di costruire ed elaborare un lavoro vincolare grazie all’unica condizione in cui può prodursi, insieme. Forse la ricerca di un terapista lontano dal luogo dove vivono quotidianamente è in relazione con questa impossibilità.
Destino, rappresentazione e presentazione
Nell’insieme vincolare che abbiamo chiamato “coppia” e “famiglia” si produce una trama dove si legano affetti e prodotti dell’esistenza di ciascuno e che ci richiede di differenziare gli affetti e gli effetti della rappresentazione di ciascun soggetto, che sono proiettati negli altri e nell’insieme. È responsabilità del soggetto l’immagine che gli altri hanno di lui. La situazione vincolare è caratterizzata da somiglianze, differenze e dall’alieno. Grazie alla ricerca e al ritrovamento della somiglianza, si mettono in moto movimenti identificatori che producono la coincidenza, l’infruttuosa eliminazione e la sopravvalutazione che ciascuno fa degli altri. Tali operazioni sono basate sulla conferma della credenza che tutti siamo uno. Il lavoro della differenza e la sua ardua accettazione permette la costruzione di un mondo interiore, dove dimorano gli oggetti interni, e di un mondo esteriore dove abitano gli altri. Nell’insieme familiare entrano in relazione le differenze di sesso, delle generazioni e le differenze che ci sono tra ognuno. Un lavoro addizionale deriva dal fatto che ciascuna differenza è a sua volta specifica e ognuna di queste risolve diverse questioni. La differenza del sesso cerca di risolvere il problema della mascolinità e della femminilità; la differenza generazionale affronta il conflitto tra padri e figli e la differenza tra un soggetto ed un altro cerca di trovare un luogo per l’alieno. Tutto ciò mette in discussione tanto le somiglianze quanto le differenze. I sentimenti oscillano tra il timore di perdere il proprio e il riconoscimento depressivo che gli altri hanno qualità che il soggetto non può ottenere. Il lavoro con la parte aliena dell’altro, che è più difficile quando si tratta di un familiare, si realizza mediante il giudizio sull’esistenza (Berenstein, 2001b), in base al quale si riconosce che l’altro o le sue qualità non figurano nella propria rappresentazione, e che questa richiede un duro lavoro di aggiustamento. Sembrerebbe che la condizione di ciò che è “familiare” non permetta l’ingresso dell’alieno e molti rimproveri derivano da questa situazione sempre difficile. Questa consapevolezza ottenuta a partire dalla presenza di altri è differente dalle rappresentazioni basate sulle esperienze infantili che si attualizzano, ripetendosi nel vincolo. I terapisti sono soliti ricorrere a spiegazioni basate su episodi traumatici infantili o del passato e l’ansia viene risvegliata da avvenimenti che derivano dagli esiti dell’esistenza ed i suoi ostacoli, e dalla mancanza di spiegazioni, dunque sono il compimento di un destino triste.
Nell’esempio precedente i membri della coppia hanno detto di voler risolvere la possibilità di una separazione pensata in sedute precedenti. Le ricorrenti sedute non danno spazio a quest’ultima possibilità. Non era facile produrre una breccia in un discorso massiccio che avallava in forma inconscia la proposta di separazione. L’agito della ragazza di andarsene prima del compimento delle sedute richieste, in base al compromesso stabilito con la madre, perché lei si trovava sola, e il fatto che il padre era morto due anni prima, mostrava la difficoltà di un lavoro in comune e di realizzare un nuovo vincolo con un terapeuta.
Dovremmo stare in guardia davanti alle spiegazioni individuali offerte a insiemi vincolari. Si suole dire che il malessere nella coppia è determinato per ciascuno a partire dall’attivazione dei conflitti infantili individuali. In questo caso, per esempio, nella donna il suo conflitto con il padre e con la sua morte e il suo disagio con la madre per il suo non aver potuto realizzare una nuova coppia, è stato riattivato dalla vita di coppia che la paziente aveva costituito. Nel nuovo contesto matrimoniale si attivano i meccanismi identificativi e proiettivi e il partner è considerato quasi uno schermo. Ma per comprendere la nuova situazione dobbiamo piuttosto includere la presenza del marito, imprescindibile per capire la “separazione” che è tanto causa che effetto di quello che si sta determinando nel setting tra i due e la terapeuta.
Il problema adesso è ciò che si chiama “separazione” e la sua singolarità è che ambedue i soggetti fanno parte di quella nuova situazione che è costituita da ciò che si chiama “seduta di coppia”. In altro luogo e tempo, per esempio nella “seduta individuale” quello che avremmo potuto osservare e su cui avremmo potuto intervenire sarebbe stato ad esempio l’elaborazione del lutto per il padre, ma lì “l’altro della coppia” è un’entità rappresentativa, non dirà nulla che influenzi il suo Io. L’altro è il terapista. Dal nostro punto di vista ciò che si definisce “separazione” è piuttosto la formazione di un vincolo che funziona come “causa” della persistenza della non elaborazione del lutto e del suo mantenimento come tale e non solo “l’effetto” del conflitto infantile. L’enunciato della ragazza “ho deciso la separazione” organizza la relazione solo nella misura in cui la chiusura del giovane rappresenta e si presenta come un rifiuto, come un non riconoscimento, come la non accettazione o non amore o come non essere desiderata. Questa attività è vissuta come passività e non come partecipazione. Forse “separazione” è la descrizione di una esperienza di impossibilità di legame, di comprendere l’altro nel vincolo e realizzare con lui una modificazione intersoggettiva.
Il definirsi di una impossibilità che si realizzi questo vincolo, forse permetterà al soggetto di effettuare la ricerca di un altro partner che dia luogo a un altro tipo di re– lazione, cioè un’altra relazione vincolare.
Il lavoro tra i soggetti di una famiglia e di questi con l’analista nella seduta psicoanalitica consiste nel confronto tra le percezioni di quali siano le modalità di relazione ideali e non discutibili, e quelle che caratterizzano i bisogni della situazione presente. I soggetti cercano di realizzare nella realtà ciò che è l’ideale.
Un breve esempio. Una famiglia stava decidendo le sue vacanze ed il modello dominante era: “i genitori sanno e decidono”. Questa idea che risultava appropriata quando i figli erano piccoli, nel corso dell’adolescenza dei figli risultava impraticabile. Dicevano che dovevano proteggere le figlie dai rischi della droga e dalle uscite notturne, eventi peraltro abituali nel mondo adolescente. Il luogo dove era la casa delle vacanze era una zona isolata e con pochi mezzi di comunicazione. La madre diceva che doveva controllare le uscite della figlia maggiore perché non le faceva bene la relazione con la sua amica poiché “andava in discoteca con un ragazzo e tornava con un altro”. Quando la figlia le chiedeva il permesso per uscire, la madre le diceva “vai a chiederlo a tuo padre” e quando si rivolgeva al padre, questi le rispondeva di andare a chiederlo a sua madre. In apparenza si univano per stabilire l’ideale di una coppia di genitori preoccupati della condotta sessuale delle figlie. La figlia diceva ironicamente che funzionava così quando il padre era a casa perché di frequente non c’era, suggerendo che dormiva in un altro posto. Certamente circolava l’impressione che la coppia non aveva relazioni sessuali da tempo con l’incognita circa questo padre e una sua vita fuori dalla casa. Quando la figlia descriveva questa prassi familiare e metteva in evidenza questa situazione, l’“interesse” dei genitori verso la salute sessuale della figlia andava in secondo piano e cercavano di nascondere le difficoltà suscitate per l’assenza del padre e la presenza in casa di questa madre quasi senza marito.
Per concludere
I soggetti di una famiglia condividono uno spazio ed un tempo prolungato e sostengono il loro stare insieme grazie alle rappresentazioni tanto personali quanto sociali. Ognuno dei soggetti e l’insieme familiare costruiscono un’appartenenza, che segue i modelli identificatori proveniente dal milieu sociale, così come dal mondo individuale. Il lavoro sulla differenza e in particolare il lavoro sull’alieno dell’altro e la sua presenza produce un’evoluzione. La ricerca e la persistenza di una identità porta all’esperienza del destino come a qualcosa di antecedente che viene rappresentato come una forza che governa le relazioni, come se queste fossero sottomesse al compimento di un comando che funziona in aree dell’inconscio. Il lavoro del e con l’alieno propone il destino come indeterminato, e perciò necessita di un lavoro di trasformazione nella situazione. Tornando alla coppia precedente, il “prima” descrive la forza della rappresentazione preesistente e si crede che determini il qui ed ora. L’agire nel presente caratterizzato da nuovi vincoli apre alternative dove non vi erano. Si deve lavorare con quanto viene ripetuto e viene presentato. Tutto ciò produce un destino incerto in un vincolo tanto produttore quanto prodotto dalla soggettività, ma solo l’esperire la soggettività potrà cambiare e modificare il destino del vincolo.
1 Destino deriva dal latino signa, plurale di signum: segnale, marchio, distintivo, bandiera. Destino o sorte deriva da fari “dire, parlare” e da fatum “fato” per la credenza pagana che la sorte individuale si doveva alle parole pronunciate dagli dei o dalle parche al nascere del bambino. Deriva anche da dicta “cose dette” da cui deriva detta come sorte felice e come destino (Corominas, 1973). Fatum significa anche il predetto, dagli oracoli, rispetto l’avvenire.
2 Ho chiamato Struttura Familiare Inconscia (SFI) l’insieme di quattro termini formati da luoghi del Padre, della Madre, del Figlio e del Fratello della Madre, che ho chiamato anche Donatore della Madre o semplicemente Quarto termine. Questa struttura era legata da quattro vincoli e dava luogo ad una serie di trasformazioni mediante la quale può modellarsi il funzionamento familiare considerato normale, neurotico, perverso e psicotico (Berenstein, 1990).
3 Per una analisi più esaustiva della nozione di “situazione” si veda Campagno y Lewkowicz (1998).
4 Due denomina la congiunzione vincolare per la quale entrambi i soggetti producono la vita di coppia a partire dall’essere loro e nessun altro due. Si differenzia dal punto di vista nel quale la coppia è pensata dall’Uno più Uno, due individualità per le quali la determinazione del prodotto per la coppia dipende dalla sua vita infantile o dal funzionamento interno ai membri. È probabile che dobbiamo sistematizzare nella coppia e nelle famiglie le produzioni del Due (e dell’insieme) e quelle dell’Uno.
Bibliografia
- Berenstein I. (1976), Familia y enfermedad mental, Editorial Paidos, Buenos Aires.
- Berenstein I. (1990), Psicoanalizar una Familia, Editorial Paidos, Buenos Aires.
- Berenstein I. (2001), El sujeto y el otro. De la ausencia a la presencia, Editorial Paidos, Buenos Aires.
- Berenstein I. (2001b), The Link and the other, Int. J. Psycho-Anal., 82, Part 1, 141-149.
- Berenstein I. (2004), Devenir otro con otro(s). Ajenidad, presencia, interferencia, Editorial Paidos, Buenos Aires.
- Campagno M., Lewkowicz I. (1998), La historia sin objeto. Prácticas, situaciones, singularidades, Edición de los autores, Buenos Aires.
- Corominas J. (1973), Breve Diccionario Etimológico de la Lengua Castellana, Editorial Gredos, S.A. Madrid.
- Leví-Strauss C. (1949), Las estructuras elementales del parentesco, Paidos, Buenos Aires, 1969.
- Martínez D.M., Morales Cienfuegos H.J. (2001), Los caracteres románticos en Don Álvaro o la Fuerza del Sino, Ficha, http://www.geocities.com/Paris/Louvre/5753/ alumnosTrab/donalvaro.htm.
- Puget J. (2001), Lo mismo y lo diferente, Actualidad Psicológica, marzo 2001, Año XXVI, 284, 9, Bs. As.