Interazioni, 1/2001:58-67
Roberto Losso
Roberto Losso (1928-2023) è stato medico, psicoanalista e specialista in psichiatria. E’ stato membro con funzioni di training dell’Associazione Psicoanalitica Argentina (APA) e della Associazione Psicoa-nalitica Internazionale (IPA). E’ stato professore di “Salute Mentale, Psicosemiologia e Psichiatria” alla Facoltà di Medicina dell’Università di Buenos Aires e di “Clinica della Coppia e della Famiglia” all’Uni-versità Kennedy.
I pazienti che soffrono delle cosiddette patologie gravi, come la psicosi, gli stati borderline, le tossicodipendenze, l’anoressia-bulimia, tutte inscritte nell’ampio spettro delle strutture narcisiste, pongono dei problemi complessi a tutti coloro che si occupano di salute mentale. Questi pazienti e le loro famiglie ci evocano spesso reazioni emotive difficili da controllare e tendono ad invischiarci nelle loro modalità di funzionamento e nelle loro difese, nelle quali predominano le difese transpersonali, definite da Laing (1982) come quelle in cui “una persona cerca di regolare il mondo interno degli altri, agendo sull’esperienza degli altri, per preservare l’equilibrio del proprio mondo interno”.
Questo concetto ci permette di descrivere più ampiamente i fenomeni che si producono in questi casi, riguardo a quello più noto di identificazione proiettiva.
Partiamo dalle idee di M. e W. Baranger (1961) sulla situazione analitica come campo dinamico, dal quale emergono i transfert, tanto quello del paziente, quanto quello dell’analista (o controtransfert). I processi transferali si sviluppano all’interno di un legame asimmetrico, il quale tuttavia spesso può diventare più simmetrico. I Baranger sottolineano anche l’importanza del linguaggio non verbale, non soltanto del paziente, ma anche dell’analista. Nel caso delle famiglie e delle coppie, le espressioni del transfert attraverso il linguaggio non verbale e corporeo acquistano un’importanza molto più grande rispetto al setting classico (Losso, 1999).
Il transfert e il controtransfert nella terapia familiare psicoanalitica
I concetti di transfert e controtransfert che conosciamo nell’ambito della psicoterapia “individuale” diventano più complessi nei contesti gruppali. Classicamente nei gruppi sono stati descritti: 1) i transfert gruppali (e i controtransfert corrispondenti) riguardanti i legami di tutto il gruppo col terapista, espressione delle fantasie inconsce gruppali (Grotjahn, 1977); 2) i transfert e i controtransfert individuali: espressione dei legami di ognuno dei membri del gruppo con il/i terapeuta/i; 3) i transfert laterali, tra i membri del gruppo.
Tra questi, possiamo considerare gli aspetti particolari dei transfert intrafamiliari (tra i membri della famiglia lungo le generazioni), che sono molteplici ed emergono nel contesto dei miti familiari (Czertok, Guzzo e Losso, 1993) Qui il diacronico si sposta sul sincronico: per esempio un padre può trasferire sul figlio un legame corrispondente alla relazione col proprio genitore; il figlio può essere al posto dell’antenato idealizzato o ripudiato. In altri casi, il figlio può trasferire sul genitore attuale modelli di com- portamento corrispondenti ai suoi genitori come li ha vissuti durante l’infanzia, ecc.
I transfert extrafamiliari, da una parte si dirigono verso il mondo esterno, come transfert transfamiliare (Stierlin et al., 1980) e dall’altra verso il o gli analista/i. Il transfert transfamiliare cerca all’esterno, attraverso meccanismi di proiezione massiccia, i “responsabili delle sofferenze”. Oppure cerca “salvatori” (parenti, vicini, il gruppo, la società…): si trasferiscono all’esterno figure di antenati fortemente odiati e/o idealizzati.
Altri autori classificano diversamente i tipi di transfert ed i corrispondenti contro- transfert. Eiguer (1989) – seguendo le idee di Blejer – parla di transfert sul setting, sul processo e sull’analista. Scharff e Scharff (1991) citano l’idea di Keats sulla capacità negativa, ripresa da Bion e definita come “capacità di rimanere nelle incertezze, dubbi e misteri senza la ricerca con irritazione di fatti e ragioni”. Essi distinguono un transfert (e pertanto un controtransfert) contestuale, in rapporto al contesto (funzione di sostegno del setting), ed uno focalizzato, reazione alla proiezione di oggetti interni del paziente sull’analista
Noi definiamo il transfert familiare come una forma di transfert extrafamiliare, ma dipendente dalla nuova situazione creata dalla terapia, vale a dire che il controtransfert influisce sul transfert e viceversa. Attraverso il transfert familiare la famiglia proietta i suoi oggetti inconsci ed i legami che si stabiliscono tra loro, sui terapeuti. Pertanto, qui i modelli di legami tra gli oggetti “interni” giocano un ruolo essenziale.
Consideriamo che nella terapia psicoanalitica di coppia, condotta da una coppia terapeutica, possiamo parlare tanto di fenomeni di transfert sulla coppia di terapisti e su ciascuno di loro, quanto di transfert della coppia (di pazienti). Se la coppia di terapisti è vissuta come coppia genitoriale, possono emergere situazioni transferali-controtransfe- rali che hanno a che vedere con questo aspetto. La coppia, ad esempio, può essere vissuta come “i genitori uniti in permanente coito” di cui parlava la Klein, come coppia in litigio permanente, o come coppia asimmetrica, in cui uno comanda sull’altro, ecc.; aggiungiamo un controtransfert di coppia, vale a dire i vissuti controtransferali della coppia terapeutica nei confronti della coppia di pazienti, nelle terapie di coppia, oppure nei confronti della famiglia e di ognuno dei suoi membri, nelle terapie di famiglia. Noi pensiamo che queste modalità di transfert siano quelle che vengono interpretate più frequentemente assieme al transfert “laterale”. Proprio per questo è importante che, sebbene ambedue i membri della coppia terapeutica provino i vissuti del controtransfert di coppia, uno di essi assuma un maggior impegno emozionale nel campo, mentre l’altro rimanga “un po’ più a distanza”, a livello di “osservatore del campo”, come un secondo sguardo (Baranger, 1961) che permette di scoprire i “baluardi” nei quali pazienti e analisti possono entrare in collusione…
Di fronte ad una famiglia disfunzionale troviamo caratteristiche gruppali particolari: i suoi membri sono uniti da legami indissolubili, conseguenza dei legami di parentela articolati secondo gli assi sincronico e diacronico e secondo modelli che si ripetono lungo le generazioni. Possiamo osservare qui la forza delle esperienze antiche di carenza e di mes- sa in atto reali, concrete, che portano all’utilizzazione dell’altro come se si trattasse di una parte di sé. Sottolineeremo l’importanza del controtransfert in queste terapie. Per i Ba- ranger, questo acquista un valore teorico e tecnico uguale – o forse superiore – a quello del transfert: anzi è impossibile capire il transfert se non attraverso il controtransfert. Al- l’interno di un campo dinamico nuovo, le sue espressioni appaiono in funzione di quest’ultimo; è impossibile capire il transfert se non è vissuto attraverso il controtransfert. Il compito degli analisti sarà dunque quello di lasciarsi avvolgere parzialmente nella “micro nevrosi o micro psicosi di transfert-controtransfert”, e poter utilizzare il loro controtransfert per la selezione e l’interpretazione del punto d’urgenza, “essenza stessa del processo analitico”, e legato alle fantasie che predominano nel qui ed ora nel campo (Baranger, Baranger e Mom, 1982).
Il transfert è, come Freud ha accennato, un fenomeno universale, presente in ogni legame umano: è quello che rende possibili i legami (Abadi, 1980a), è un fenomeno clinico ed un concetto meta psicologico. Il controtransfert invece è un fenomeno clinico ed uno strumento tecnico: è il transfert dell’analista – o degli analisti – riguardo al o ai pazienti. È specifico del campo terapeutico e vi è utilizzato come strumento tecnico. Il controtransfert implica la capacità di concettualizzazione riflessiva dell’inter gioco dei transfert reciproci. È per quello che la sua utilizzazione ha bisogno – come affermano i Baranger – di un “secondo sguardo”, ovvero di una dissociazione strumentale dell’analista (Losso e Packciarz Losso, 1987, 1988).
Transfert, controtransfert e mito familiare
Ogni famiglia costruisce un racconto, conscio e inconscio, che – come i sogni – possiede aspetti manifesti e aspetti latenti. Contiene un sistema di credenze (Ferreira, 1966) condivise dai membri di una famiglia, che non è impugnato da nessuno di loro. La sua funzione è quella di spiegare – coprendoli – gli aspetti conflittuali della storia del gruppo che hanno a che vedere con l’identità familiare. Stabilisce le condizioni di appartenenza alla famiglia, e instaura un sistema di valori che regolano la conoscenza – e la lettura – della realtà esterna e interna (Nicolò, 1988). Il mito è elaborato nel corso di parecchie generazioni e le sue versioni cambiano attraverso di esse. Nel seno di una stessa famiglia, ogni membro può averne la sua propria versione, versione che sarà più “personale” e diversa quanta maggior capacità d’individuazione abbia raggiunto il soggetto. Dalle costruzioni mitiche sorgono le regole e i mandati trans generazionali che stabiliscono i ruoli, le missioni e le deleghe per ogni membro della famiglia (Boszromenyi- Nagy e Spark, 1973; Stierlin, 1980).
Potremmo dire anche che il mito risulta da un’elaborazione secondaria di ricordi legati a situazioni traumatiche rimosse, denegate, forcluse o dissociate, che darà anche un carattere particolare al mito secondo il meccanismo predominante. Così, potremo trovare tutto uno spettro di funzionamenti familiari: ad un estremo, funzionamenti rigidi, narcisisti, dove predominano meccanismi di difesa “primitivi”, in consonanza con miti più bizzarri e inespugnabili, generatori di patologie più gravi; e dall’altro, funzionamenti familiari in relazione a miti più flessibili, suscettibili di revisione, e pertanto più vicini al registro nevrotico, includendo la possibilità del funzionamento simbolico. I miti più rigidi tendono a negare anche il passaggio del tempo e rimangono quasi inalterati (Losso, 1990). Un mito più “flessibile” sarà anche un mito che include la dimensione temporale.
In seduta, la mobilitazione delle strutture mitiche (quelle della famiglia e quelle dei terapisti) porta a creare un clima emotivo che riattiva i livelli più primitivi o più indifferenziati dei legami introiettati, evocando quelli che Bion (1956) ha descritto come i livelli protomentali dello psichismo, che costituiscono la mentalità gruppale. Quei livelli si attivano a partire della presenza reale del gruppo familiare e si esprimono attraverso un’emotività primitiva, una più importante partecipazione corporea, una tendenza all’agire e al pensiero concreto e difficoltà nel funzionamento a livello simbolico.
Il transfert, nella psicoanalisi della famiglia e della coppia, si stabilisce allora all’interno di una struttura nella quale i miti hanno caratteristiche particolari che si ripetono nel qui ed ora della seduta. Vale a dire che i transfert familiari tendono ad inglobare i terapeuti dentro il mito familiare e dunque nel funzionamento familiare strutturato da questo mito.
Quando viene stabilito il contesto terapeutico, la famiglia tende a trasferire sui terapeuti le immagini corrispondenti ai personaggi della mitologia familiare. Cerca di invischiarli nel mito familiare. Noi abbiamo denominato questo processo transfert mitico (Czertok, Guzzo e Losso, 1993). La famiglia tenterà di spostare sui terapeuti gli stessi meccanismi che hanno contribuito ad “ammalarla”. Questo può suscitare nei terapeuti vissuti di paralisi, di impotenza, di confusione, di lentezza. Essi possono sentire che hanno “idee pazze”. Provano ed esprimono le emozioni e le ansie che la famiglia teme ed evita. Non è raro che per lo meno a uno di loro sia attribuito il ruolo di paziente designato, diventando così il portavoce (Pichon Rivière, 1971) o porta-sintomo.
I terapeuti, “prigionieri” della famiglia, si sentono portati a convalidare il mito, ma nello stesso tempo sono di fronte al “paziente designato” il quale denuncia, a modo suo, il carattere difensivo del mito familiare. I terapisti si sentono presi “tra due fuochi”: da una parte la famiglia gli chiede di essere d’accordo con essa e convalidare il mito con cui ha, bene o male, convissuto da anni; e d’altra parte, il paziente designato gli chiede di denunciarlo, benché contemporaneamente lo conferma con la sua condotta “pazza”, anzi difendendolo con energia, nonostante i suoi effetti distruttivi.
È questo campo conflittuale che porta i terapeuti a rieditare certe vicissitudini del processo di separazione riguardo al proprio mito familiare. Dette vicissitudini si tradurranno in una maggiore o minore capacità di collusione terapeuti-famiglia. Abbiamo parlato, insieme ai colleghi citati, di valenze collusive per riferirci a questi processi, che rendono gli analisti vulnerabili e possono portarli a un tale legame di dipendenza verso dette famiglie, da giungere a situazioni in cui hanno bisogno della famiglia come sostegno narcisistico. Si possono osservare anche situazioni nelle quali un analista mostra una difficoltà ricorrente nel lavorare con stili familiari particolari: autoritari, seduttori, manipolatori, squalificanti, ecc., il che può significare una restrizione alle sue possibilità terapeutiche.
Il controtransfert (includendo le tre aree: corpo, mente e condotte)[nota 2] diventa dunque un insieme di sensazioni e sentimenti vissuti dall’analista nella cornice dell’intreccio dei miti della famiglia e di quello proprio. Questo incontro di miti crea un nuovo mito che include i miti anteriori e li trascende, come per soddisfare le aspettative reciproche. C’è bisogno di un certo livello di collusione, nel senso di “co-illusione”, analoga – in un certo senso – alla collusione del periodo d’innamoramento nelle coppie. Ma è anche possibile lo scaturire dal campo di fenomeni transferali-controtransferali nuovi, che possono dar luogo a esperienze emozionali inedite, con un effetto strutturante per i membri della famiglia, come conseguenza delle risorse egoiche (García Badaracco, 1985) che queste esperienze portano con sé.
D’altra parte, i casi nei quali il controtransfert diventa controidentificazione proiettiva (Grimberg, 1963) dipenderanno dall’importanza delle valenze collusive in gioco, di modo che la co-illusione diventa co-delusione (delusion significa delirio in inglese), in correlazione ai livelli non differenziati.
Potremmo parlare di due forme del processo di collusione:
– Nella prima, la presenza dell’analista orienta i transfert intrafamiliari verso di lui, in una co-illusione che ha per conseguenza la diminuzione dell’intensità di quei transfert.
– Nella seconda, la famiglia tenta di inglobare l’analista (o gli analisti) nel mito familiare, portandolo ad occupare spesso il posto del paziente designato. Questo può essere percepito dall’analista come una “deviazione dell’imparzialità partecipativa interna” (Stierlin, 1977), vale a dire che il o i terapisti si scoprono schierandosi con un membro della famiglia contro gli altri, oppure identificandosi e dando ragione ad un sottogruppo nei confronti di un altro, ad esempio ai genitori rispetto i figli o viceversa. Questa deviazione può funzionare come “angoscia segnale” (Czertok, Guzzo e Losso, 1993), come “avvertimento” che qualcosa di anormale sta accadendo nel campo, mettendo dunque all’erta l’Io osservatore dell’analista (secondo sguardo) e/o del suo co terapeuta. In questi casi, c’è il rischio di un’impasse con conseguente blocco del processo (Baranger, Baranger e Mom, 1982). Possiamo parlare anche di processi di contro identificazione proiettiva, nei quali il processo diventa circolare, invece di essere “a spirale”. Per Pichon Rivière il processo a spirale implica una situazione dialettica che si stabilisce “qui ora e con noi, come prima con altri, e come in seguito da un’altra parte ed in modo diverso”. Quando l’analista è invischiato nel mito familiare, non è in grado di operare una dissociazione strumentale, non percepisce l’“angoscia segnale” e perde anche la possibilità di dissociazione operatoria, il suo “secondo sguardo”: agisce dunque come un membro della famiglia. Se invece la capacità riflessiva è conservata, questa potrà essere la via maestra per la comprensione del mito familiare, o meglio ancora, per “costruirlo” assieme alla famiglia, nel senso di costruzione freudiana (Freud, 1937), permettendo così di iniziare un processo di riscatto del senso della storia familiare (Abadi, 1980b).
Con altre parole, parafrasando Kaës, possiamo dire che i membri dell’équipe terapeutica “prestano” ai membri della famiglia il loro preconscio, perché possano far diventare pensabili i contenuti psichici che li affliggono, e che sono agiti nel mondo esterno (includendo l’uso delle difese transpersonali), nel proprio corpo o nella propria mente, come elementi scissi o “incistati” (Abraham e Torok, 1978, Losso et al., 1996)
L’analista (gli analisti) ed i mezzi per affrontare il suo (i loro) controtransfert
Pensiamo che la riattivazione, nel mondo interno dell’analista, dei livelli di legame più primitivi ed indiscriminati della sua mitologia familiare può avvenire anche dopo un’analisi personale considerata soddisfacente (Marcer, 1988), poiché si tratta di aspetti “muti” del legame, di nuclei dissociati dal resto dell’Io, di baluardi (Baranger, 1961-62), i quali sono più facilmente evidenziati nel campo della terapia familiare. Da qui l’importanza di utilizzare risorse che permettano all’analista di arrivare a rendere coscienti questi livelli del suo funzionamento mentale.
Una prima risorsa tecnica è la coterapia. Poiché i coterapeuti provengono da famiglie diverse, con mitologie e vicissitudini differenti, potrà scaturire un gioco di diverse valenze collusive, che amplifica le possibilità di movimenti transferali-controtransferali. In modo che se uno di loro si trova preso da una controidentificazine proiettiva, l’altro può assumere le funzioni di Io osservatore, di secondo sguardo e “riscattare” il coterapeuta tanto durante la seduta, quanto dopo nella discussione ulteriore.
Similmente, per esigenze di efficacia clinica, in molti casi s’impone il lavoro in équipe, che può essere coadiuvato dall’uso dello specchio unidirezionale e dalla supervisione in vivo. Ricordiamo che a questi livelli dello psichismo riattivati dal contesto familiare, il linguaggio non verbale e corporeo acquista una considerevole importanza e pertanto è rilevante l’osservazione diretta della famiglia (e degli analisti) in azione. Le reazioni emotive dei membri dell’équipe osservatrice arricchiscono e completano i vissuti controtransferali degli analisti.
Con la nostra équipe di lavoro abbiamo messo a punto una tecnica diagnostica per le famiglie e le coppie, che prevede lo studio delle sedute includendo l’impiego di tecniche di psicodramma (role-playing): alcuni membri dell’équipe assumono il ruolo di “pazienti”, altri quello di “analisti”, mentre gli altri osservano dietro lo specchio la “seduta”. L’équipe funziona come luogo di risonanza degli affetti che eventualmente erano “muti” nei terapeuti e che scaturiscono nel corso della drammatizzazione della seduta. Si svolge un processo di diffrazione (Kaës, 1987) dei gruppi interni dei terapeuti, includendo parti di identificazioni con aspetti dei pazienti, che fino allora rimanevano mute, e che appaiono espresse dai colleghi che drammatizzano, tanto nel ruolo di “pazienti” quanto in quello di “terapisti”. Si stabilisce così quello che proponiamo chiamare un campo ampliato, che sarà allora integrato dalla famiglia, dai coterapeuti e dai membri dell’équipe (Losso, 1999).
Un’altra risorsa per i terapisti è offerta dalla possibilità di fare un’esperienza personale di psicoanalisi della propria famiglia e/o coppia, o di analisi di gruppo; ciò può permettere una miglior elaborazione dei livelli di legame che questi contesti terapeuti ci richiedono.
La famiglia C. Un caso di collusione dei miti
La famiglia C arrivò alla consultazione perché una delle figlie, Cristina, di cinque anni, soffriva di asma bronchiale con gravi complicazioni polmonari, per le quali due volte aveva dovuto essere ricoverata, con rischio di morte. Il nonno del padre di Cristina (Edoardo), si era suicidato gettandosi sotto un treno, fatto che fu mantenuto segreto lungo molto tempo. La madre di Edoardo, che soffriva di una depressione cronica, aveva fatto un tentativo di suicidio, mettendosi tra i binari della metropolitana, ma, siccome rimase parallela alle rotaie, il treno le passò sopra, causandole soltanto alcune ferite. Il padre di Edoardo era morto quando questo aveva cinque anni. Il padre di Cristina, Edoardo, presentava tratti ossessivi nel suo carattere, con alcuni periodi di depressione. D’altra parte, la madre di Cristina, Norma aveva un fratello “desaparecido” nell’epoca della dittatura militare in Argentina, ma la famiglia negava che lui fosse morto, nonostante fossero trascorso più di quindici anni dalla sua scomparsa. Nel corso delle prime tappe del processo terapeutico, noi analisti (la famiglia era stata presa in coterapia) sentivamo che la famiglia ci trasmetteva la minaccia di annichilimento psichico, di crollo, ma coesisteva anche il pericolo reale di morte della bambina, per cui ci sentivamo in una situazione di allarme quasi permanente. In seguito, nella misura in cui i sintomi di Cristina miglioravano, le sedute incominciarono a diventare più “noiose”.
La famiglia era puntuale alle sedute, ma dopo “non succedeva nulla”. Forse venivano a “perdere il tempo”? A livello contro- transferale percepivamo un senso di paralisi, futilità, noia e mancanza di speranza. Uno dei terapisti incominciò a sentire la voglia quasi incontrollabile di dormire in seduta, il che provocò un litigio nella coppia terapeutica. Questo fu un momento di controidentificazione proiettiva da parte di uno dei terapeuti, che si era identificato con gli aspetti “mortiferi” della famiglia, provando un grande pessimismo. Si era prodotto un fenomeno di collusione tra i miti del terapeuta e quello della famiglia, che fu espresso da Edoardo, che in un certo momento disse: “tutto è inutile, ma è preferibile non dire niente”, perché “se parliamo arriviamo ad un conflitto totale, senza ritorno”.
Le parole “conflitto totale” significavano catastrofe, annientamento, crollo ed infine, morte, che è l’unica cosa senza ritorno. Dopo la discussione nella coppia terapeutica [nota 3], il terapista poté capire che era rimasto paralizzato perché anche lui proveniva da una famiglia con un mito simile: era meglio non parlare. Perché riuscisse a “liberarsi” dalla trappola della controidentificazione fu necessario l’intervento del coterapeuta, “secondo sguardo” del campo. Ciò permise anche di capire che la coppia terapeutica si stava facendo carico delle rabbie non espresse dalla coppia di Edoardo e sua moglie ed inoltre funzionava da specchio della paralisi e dello stato di “morta-vivente” (Baranger, 1960-61) in cui si trovava la famiglia. Dopo aver analizzato con la coppia questi vissuti, i membri della famiglia hanno potuto incominciare a confrontarsi con l’intenso dolore dei lutti non elaborati che la famiglia portava e sopportava e con le deleghe mortifere delle generazioni precedenti. In effetti, il corpo di Cristina era il luogo di risonanza dei lutti non elaborati come se sintetizzasse tutte le morti. La consultazione iniziale era stata decisa in conseguenza di una minaccia di morte: la pediatra ci aveva trasmesso la sua preoccupazione per la sintomatologia di Cristina che, secondo lei, trasmetteva “la rabbia, il malessere, il disagio” familiari. E aveva aggiunto: “era come se lei stesse per suicidarsi”. Questa famiglia aveva “conti da pagare” con le generazioni precedenti. Come ha detto Boszormenyi-Nagy, nel Libro Maggiore dei Meriti, il saldo, in queste famiglie, è sempre debitore. In questo caso c’è una delega di una missione che equilibri il bilancio. Qualcuno deve morire (Losso, Packciarz Losso e Halac Liffchitz, 1992) e Cristina doveva essere la vittima sacrificale. Il poter rivelare i fantasmi e “far circolare” nella famiglia i segreti incistati, ha aiutato tutti e liberato Cristina dal suo destino di morte.
In conclusione
Proponiamo il concetto di transfert mitici, transfert che si producono nel campo terapeutico, a partire dal mito familiare: si crea una sorta di corrispondenza tra i transfert della famiglia e quelli dell’analista, risultanti dalla collusione tra il mito della famiglia e quello della famiglia dell’analista. Se le valenze collusive di ambedue i miti sono troppo massicce, può esserci il rischio che si stabilisca il fenomeno della controidentificazione proiettiva. Quando invece si può conservare la capacità di riflessione, il controtransfert sperimentato dagli analisti, nel suo inter gioco col transfert familiare, diventa uno strumento che contribuisce allo svelamento del mito familiare, permettendo di portare avanti, insieme alla famiglia, il lento lavoro di costruzione della sua storia.
Note
* Le idee sviluppate in questo articolo, per quanto riguarda il controtransfert, sono state elaborate insieme ai dottori Oscar Czertok e Saverio A. Guzzo, presentate per la prima volta al Congresso Internazionale di Psico- analisi ad Amsterdam (1993) e pubblicate successivamente sulla Revista de psicoanálisis (Czertok, Losso e Guzzo, 1993).
1 Un’idea simile a quella di capacità negativa è stata sviluppata da H. Faimberg (1992) col suo concetto di posizione controtransferale.
2 Pichon Rivière (1971) ha descritto tre aree fenomenologiche d’espressione della condotta: la mente (area 1), il corpo (area 2) e le condotte d’azione nel mondo esterno (area 3).
3 I membri della coppia terapeutica si riuniscono dopo ogni seduta per discutere i rispettivi vissuti con- trotransferali.
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