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Il bambino come “terapia” della difesa maniacale post-traumatica genitoriale

Andreas Giannakoulas

Interazioni: 0/1992: 25-35.

Andreas Giannakoulas.
Andreas Giannakoulas ( 1936-2021) Analista didatta e presidente dell’Associazione Italiana di Psicoanalisi (AiPSI), Presidente Emerito di ASNEA, Membro Onorario della Società Italiana di Psicoterapia Psicoanalitica dell’Infanzia e dell’Adolescenza (SIPsIA), Presidente Onorario del Centro Studi Donald W. Winnicott.

Il contributo della psicoanalisi del bambino e dell’adolescente nella teoria e nella clinica psicoanalitica, in particolare quello di Anna Freud, Melania Klein, Greenacre, Winnicott e Bowlby è ormai noto. Le osservazioni e l’estremo interesse che la psicoanalisi dell’adulto ha mostrato per le prime fasi dello sviluppo, hanno ulteriormente arricchito il nostro modo di comprendere e rapportarci con i pazienti. Le stesse scoperte di Freud sull’esprienza traumatica del bambino in rapporto alla scena primaria, nel caso dell’uomo dei lupi, hanno segnato un punto di svolta fondamentale nell’evoluzione psicoanalitica e siamo ormai consapevoli della profonda influenza dell’ambiente familiare sulla normalità e sulla patologia del bambino.

Paradossalmente però la ricerca psicoanalitica sugli aspetti relativi alla genitorialità, e soprattutto alle operazioni psichiche che hanno luogo in questo contesto, sono stati quasi completamente ignorati. Mi riferisco in particolare ai cambiamenti che si verificano durante il periodo di flirt, nella scelta del partner, nell’innamoramento, nell’amore ed ai processi che gradualmente strutturano la membrana diadica, lo spazio condiviso e la genitorialità, nonché al cruciale argomento del rapporto tra la sintomatologia del bambino e la collusione patologica della coppia.

Esistono vari contributi e addirittura teorie sull’amore: la teoria della li- bido (quale impulso istintuale sui generis), la teoria del rapporto oggettuale, la teoria degli affetti e, dal punto di vista dell’integrazione, è stato teorizzato un bisogno personale, cioè una ricerca dell’oggetto (object seeking di Fairbairn).
Balint (1960) ha postulato un atteggiamento costituzionale di base, una prodiathesis, una concezione dell’amore primario il cui scopo è quello di «strutturare, o probabilmente ristrutturare, un’armonia che includa il proprio ambiente». Kernberg si è interessato agli aspetti inerenti la capacità di innamorarsi e l’amore quale compito evolutivo e, come si sa, nell’adolescenza l’amore assume oltre che caratteristiche più intensamente istintuali, qualità genitali e altruistiche. Il primato genitale, pur non offrendo alcuna garanzia di vere relazioni d’oggetto, apre tuttavia la strada alla possibilità che un legame possa essere stabilito su basi più durature.

La stabilità e il carattere duraturo di una relazione d’oggetto, quali indicatori della natura dell’amore, non devono essere sottovalutati perfino se le basi di questo attaccamento appartenessero ad altri fattori, ma non possiamo spiegare il significato della natura del rapporto oggettuale solo con riferimenti evolutivi ed individuali.

Il rapporto tra due persone, anche se visto soltanto dal punto di vista dell’esperienza soggettiva e del funzionamento attivo di una delle due persone interessate, comporta segnali e indicazioni molto sottili e complicati. Nell’interazione viene anche coinvolta un’intera gamma di vissuti inconsci così come di sentimenti, desideri, bisogni, aspettative, ecc. Ci sono naturalmente scambi inconsci di messaggi, e molte altre forme di comunicazione.

Ogni partner, in ogni dato momento, crea un ruolo per l’altro, e tratta con l’altro per indurlo a rispondere in un determinato modo. Spesso un tentativo di convertire l’altro in un oggetto familiare al di là della sua connivenza è palese. Si tratta di un processo universale che presenta una serie di fasi sequenziali, cioè trasformazioni anche filogeneticamente sostenute. Inoltre ogni fase o stadio di questi processi subisce varie modificazioni affettive che richiedono una serie di elaborazioni e comportano un nuovo livello di equilibrio interno con le relative operazioni psichiche, che possono facilitare o impedire la naturale evoluzione dei processi stessi.
Un legame profondo con l’altro può naturalmente portare ad un buon esito e ad un risultato creativo, ma spesso anche ad un arresto ai vari stadi del processo, o addirittura ad un processo deviato, deformato, scompensato. Inoltre una mancata capacità di elaborazione può interferire con i traguardi più vitali dell’esistenza dell’individuo ed in quella di coppia.

Una relazione che si mantiene sulla base di un legame patologico di dipendenza può essere indice di fallimento dei processi di separazione-individuazione, del terrore di essere soli, della mancanza del senso di indipendenza e di individualità, e specificatamente della paura del vuoto.

Esperienze dolorose traumatiche improvvise – impensabili – e perdite importanti in periodi di vita ancora vulnerabili, come durante l’infanzia e l’adolescenza, provocano un enorme dolore psichico e mettono in movimento processi di lutto di non facile elaborazione e, di conseguenza, creano una predisposizione al disturbo psichico, latente o manifesto.

Si sa che il lutto è anche il doloroso processo del distacco della libido da un’immagine interna, e che relazioni con figure parentali ambivalenti e idealizzate portano alla più totale ed irreparabile disperazione nei riguardi degli oggetti interiorizzati ma persi e mantenuti in animazione sospesa. Queste relazioni in definitiva rendono vane le tendenze creative e riparatrici, con la conseguente regressione e perdita dell’autostima narcisistica.

Spesso nei disturbi depressivi le regressioni riguardano sia la sfera libidica che le funzioni dell’Io, e il dolore immobilizza molte delle funzioni dell’Io ed usurpa tutto lo spazio psichico interno, dando luogo ad un inevitabile impoverimento della personalità, ad angosce e rabbia rimossa, ed a sentimenti di morte. Di solito si organizzano delle difese molto arcaiche, di ordine maniacale, con tentativi di affrontare il lutto quali il diniego, lo splitting, lo spostamento, la proiezione eccetera. La sofferenza mentale in queste situazioni è enorme, il bisogno di essere aiutati è presente ma la difficoltà di staccarsi dal rapporto con l’oggetto perso difficilmente viene superata.

La matrice affettiva della depressione, con tutta la gamma delle sue difese, influenza naturalmente fin dal principio la scelta del partner e struttura in modo significativo il rapporto di coppia. Freud, Melania Klein e Winnicott, hanno sottolineato lo sforzo insito nel porre rimedio alla perdita delle persone interiorizzate e significative in una interminabile richiesta d’amore. Tale amore è naturalmente come stregato.
Con l’accoppiamento l’Io crea l’opportunità di manifestare tendenze pseudo-riparatrici, e può parzialmente rimediare dando piacere, aiuto, e sostegno ad un oggetto ed ad un sé esterni e reali mentre si illude di restituire a se stesso, internamente, l’oggetto amato perso.

Questo può essere un aspetto importante e positivo nel condividere gli aspetti elementari della vita quotidiana e sociale coniugale, senza però un reale e reciproco investimento sia libidico che affettivo.
In queste situazioni il sentimento soggettivo del desiderio, come un precursore dell’affetto al di fuori dell’area di tristezza e di dolore non riesce mai a costituirsi. La scelta del partner in sostanza diviene un meccanismo contro- fobico che permette al paziente di fuggire dal proprio mondo interno congelato, ed attraverso tale fuga nella realtà egli si ingegna ad evitare il collasso totale dell’Io e la regressione irreversibile a stati di depressione psicotica. La scelta del partner in queste situazioni utilizza più modalità psicotiche che nevrotiche, e non solo il trauma e le perdite dell’altro, ma anche il vissuto del mondo affettivo, emotivo ed istintuale dell’altro rimangono totalmente tagliati fuori e non vengono minimamente percepiti e condivisi.
Ma il matrimonio non è curativo, ed alla fine in questi casi il soggetto si sente impotente ed incapace di annullare la perdita subita e, immerso come sarà nel proprio dolore, non potrà né aiutare l’altro, né conseguire qualcosa che possa diventare essenziale alla propria integrità narcisistica e a quella del partner. Riemerge così lo stato di impotente rassegnazione di fronte al dolore ed alla sofferenza, insieme ad una inibizione sia dei processi di lutto, collegati con il trauma, sia dei processi che devono avviarsi per la trasformazione del legame della coppia (mi riferisco alla genitorialità ed alla formazione di uno spazio potenziale necessario per i diversi processi psicosomatici che si avviano con la gravidanza). Si struttura invece una patologia collusiva dove l’esito inevitabile sono i coinvolgimenti altrettanto patologici dei figli.
È paradigmatico il caso dei genitori di Piero.
Una prima considerazione: la particolarità del setting terapeutico è anche indice della difficoltà di venire incontro al disperato bisogno dei pazienti, specialmente in provincia, per l’assenza di strutture di psicoterapia psicoanalitica sia individuale che della coppia. Ho ritenuto anche necessario mantenere intatta la descrizione del caso come presentato dalla terapeuta che ha sentito il bisogno di discuterlo alcuni mesi dopo la sua tragica conclusione.

La coppia è stata indirizzata alla terapeuta dal figlio maggiore, Piero, di 27 anni. Per far sì che la terapeuta accettasse l’incarico, Piero ha insistito a lungo, per quasi tre mesi. Da molti anni Piero era preoccupato per i genitori; in particolare, come egli stesso ha detto: «per la salute di mio padre e per l’insoddisfazione di mia madre: non so più cosa fare per accontentarla. La situazione familiare non può più essere tenuta sotto controllo. I miei genitori debbono ormai chiarire alcune cose tra di loro».

Qualche dato sui soggetti. Lui, Mario, poco meno di 60 anni, è un insegnante di violino al conservatorio, attività che ha da tempo però abbandonato. Si occupa dell’amministrazione del patrimonio familiare, in particolare della gestione di un bar, di una pasticceria e di un ristorante. Passa la maggior parte del suo tempo in casa; è un collezionista di arte moderna. Ma la sua vera passione sono i reperti di scavi etruschi e romani.

Lei si chiama Laura. Ha circa 50 anni, si occupa soprattutto della casa, della famiglia, amministra e guida il personale di servizio. Ha fatto sì che la sua casa, come in passato era stato per il ristorante, diventasse il luogo di ritrovo dell’élite intellettuale cittadina: scrittori, artisti, politici e studiosi. Anche i due figli, Piero e Franco, portano spesso i loro amici e amiche a casa.
Alle sedute con la terapeuta si presentano sempre puntualissimi, eleganti, affabili e riconoscenti. Lui magro, lei obesa. Lui apatico, lei tesa. Lui parla ininterrottamente e senza difficoltà. Lei con interventi brevi e fuggevoli, come per integrare i discorsi di suo marito controllandolo.

Lui descrive, quasi con compiacenza, le sue sofferenze: salute fragile, disturbi gastro-intestinali, epatite, una severa dieta alimentare; spende la maggior parte del suo tempo in casa, non esce volentieri tranne che per qualche concerto, riceve soltanto una ristretta cerchia di amici. Una delle sue maggiori preoccupazioni, sottolinea, è però causata dalla rivalità e dall’aggressività tra di due figli. «E pensare che ci tenevo tanto che i miei ragazzi andassero d’accordo» dice.
Descrive la propria famiglia. Suo padre incontrò e sposò sua madre quando lei, vedova, aveva già un bambino. Parla della madre con grande emozione e nega qualunque rivalità nei confronti del fratellastro. E quasi mormorando dice: «Anche se soffrivo tanto dentro di me, ed è la prima volta che lo confesso a qualcuno, sentivo che mia madre preferiva il mio fratellastro». La moglie lo guarda sbalordita e commenta: «E pensare che sei sempre stato così generoso con lui».
Lui prosegue: «Mia madre, una bellissima donna, era molto sensibile e dolce. Si è sacrificata per farmi studiare musica. Mi procurava i migliori maestri ed era felice per questo. Mi ha mandato a studiare a Venezia. Erano tempi difficili, c’era la guerra. L’ho vista morire davanti ai miei occhi sepolta sotto le rovine della nostra casa bombardata. Era entrata per prendere un orologio, che ancora funzionava, intatto, quando lei era già morta. Ricordo che lo scaraventai a terra con rabbia. Ci pensa? Perdere la mamma così!». Ancora una volta lei lo guarda con tenerezza dicendo: «Non sapevo dell’orologio, non me l’avevi mai detto». Lui, senza volgere gli occhi dalla sua parte, quasi nascondendosi il viso con una mano risponde: «Come potevo parlare a te dei miei morti quando penso a quello che è accaduto a te e ai tuoi? Ho tanta voglia invece di parlare ora con qualcuno. Aveva ragione Piero. Però adesso lascio spazio a te».
Mentre il tempo della seduta sta scadendo lei dice soltanto: «Vorrei dire che mi spaventa il mare e le curve quando viaggio in macchina».
Nella seconda visita c’è un invito diretto alla terapeuta a recarsi a casa dei pazienti, anche perché lei possa apprezzare la loro collezione d’arte. «Inoltre potrebbe osservare da vicino i nostri problemi di famiglia, dato che noi non ne parliamo volentieri» dicono.
Esprimono apprensione ancora una volta per i loro figli e si soffermano sul più grande, Piero. Dice la signora: «Con Franco, il minore, non ha quasi rapporti. Sarà geloso, ma lo elimina da tutti i suoi interessi malgrado si incontrino negli stessi luoghi. Piero fa finta addirittura di non vederlo. Piero è molto serio e responsabile. Ha conseguito una brillante laurea ma si dedica alla gestione degli affari familiari. Aiuta il padre, facendo anche orari impossibili, si occupa del personale, della clientela. È molto responsabile di tutto. Ha un enorme senso del dovere, dice che non andrà mai via di casa. Ha tutto quello che gli serve e non cerca altro. Invita spesso amici e amiche a casa. Ha una ragazza, ce l’ha fatta conoscere. Lei viene spesso da noi. Il rapporto con il padre è migliorato negli ultimi anni e Piero ha trovato in mio marito un grande amico».
Il padre conferma questo suo rapporto con il figlio. Racconta poi una vicenda di Piero. A 18 anni il giovane aveva una ragazza. Poi la loro storia d’amore sembrava finita. Ma un giorno, proprio quando ormai si erano lasciati, lei lo informa di essere incinta, e chiede di tornare con lui. Lui non ne vuole sapere. «Allora abortirò» risponde la ragazza. E sparisce. Piero la rivede il giorno degli esami di maturità. Lei è alla fine della gravidanza. Racconta il padre di Piero: «Mio figlio non l’ha mai voluta sposare, non ha mai voluto vedere il bambino, mentre noi siamo rimasti abbastanza coinvolti emotivamente con questo bambino».
La signora sottolinea il fatto che il figlio non le racconta mai, come fa invece col padre, della sua vita privata. Lei riesce tuttavia a sapere tutto dai suoi migliori amici che frequentano la casa. «Per me questa è una grande sofferenza, dato che io ho un amore smisurato per Pietro. Ma lui, nel carattere, somiglia al padre, anche se la sua immagine fisica è più vicina a me». Aggiunge pensierosa: «È schivo, riservato, se non fosse per tutti gli sport che pratica, scoppierebbe».
Entrambi manifestano una certa indifferenza per il secondo figlio. Viene descritto come violento e irresponsabile, tutto l’opposto di Piero che invece tutti amano e stimano. «Lui incute rispetto solo a vederlo». Alla fine della seduta lui aggiunge: «Ci sono tante cose da dire e da vivere perché anche se le emozioni possono in qualche modo nascondersi e spostarsi, in realtà i problemi alla fine si vedono sempre più gravi». Tutti e due chiedono alla terapeuta di aiutare anche Piero. La signora finisce la seduta dicendo, quasi pregando la terapeuta: «Non ci lasci soli dottoressa, tutti noi abbiamo bisogno di lei. È come se la conoscessimo da sempre e da sempre la aspettassimo nella nostra vita».

La seduta successiva inizia con l’infanzia di Piero. Viene descritto come un bambino difficile, che ha rifiutato il latte materno e prestissimo ha cominciato a nutrirsi dei cibi preparati dalla madre per gli adulti. Lei era sempre preoccupata per lui anche se lui era così bello da vincere anche due premi di bellezza per bambini «Io lo seguivo indirettamente perché la nostra vita è stata gravata dalla storia della nostra famiglia e quando Piero è nato io ero molto giù. Avevamo un ristorante, era di mio padre, cioè della nostra famiglia. Ho dovuto occuparmene molto giovane e ho dovuto crescere in fretta. La vita è stata molto crudele con me. Mio padre mi adorava. Io ero l’ultima di tre figli. La maggiore era mia sorella, il secondo mio fratello. Avevo sedici anni. Ero la preferita di mio padre ma mia madre preferiva sempre mio fratello. Non soffrivo perché mio padre mi trattava come una regina. Improvvisamente perdetti mio padre e mio fratello in un modo orrendo e atroce. Fu trovata nel ristorante, durante una perquisizione una pistola non denunciata. Mio padre fu interrogato e poi portato via per normali accertamenti. Un generale tedesco che frequentava il nostro ristorante suggerì di dare, in cambio di mio padre, mio fratello. Soltanto per qualche giorno, il tempo di fare tutti gli accertamenti. Lui andò spontaneamente. Non tornarono purtroppo né l’uno né l’altro. Per errore furono uccisi entrambi lo stesso giorno della strage delle Fosse Ardeatine. Fui chiamata ad identificarli dopo molte, inutili, strazianti ricerche. Li riconobbi, dai miserabili resti, per una catenina d’oro e un orologio. Mia madre, dopo quel giorno, per il dolore quasi impazzì. Non ha più parlato. Ha avuto un invecchiamento precoce con manifestazioni di demenza. Io sono cresciuta improvvisamente e il resto glielo faccio immaginare».

C’è un silenzio intenso e pieno di commozione. Il marito interviene aggiungendo: «Poi hai incontrato me. Io ti ho aiutata». E lei: «È vero, per me hai fatto molto ma io mi sento sempre con un gran vuoto dentro che tu non hai potuto colmare. Tu ti sei occupato della mia vita, del mio lavoro, ma non delle mie emozioni. Ho una gran solitudine dentro. Eravamo così diversi. Tu con le tue cose belle, la tua sensibilità, la tua musica e poi naturalmente il tuo dolore per la perdita di tua madre ancora oggi così grande. Io sono rimasta sola senza essere capita da nessuno, forse da Piero. Ma lui si difende, come per proteggersi da me. È sempre a casa, non ci lascia mai. Ha una relazione con una donna sposata con un giornalista che lo vede quando il marito la lascia sola per il suo lavoro. Lei non gli chiede nulla né lui chiede nulla a lei. Ormai anche il figlio di Piero è cresciuto. Ma Piero ha mostrato indifferenza nei suoi confronti, malgrado noi abitiamo vicino a lui, lo vediamo sempre sulla stessa spiaggia. Nostro figlio, con molta onestà dice: «Io non lo posso sentire come mio figlio, dov’è l’amore? Non riesco a sentire nulla per lui».

(4° seduta) Inizia la signora, vuole parlare di Piero quando era piccolo; era sempre molto depresso, si annoiava sempre, non sapeva mai come giocare anche se aveva montagne di bellissimi giocattoli. Era un bambino amatissimo da tutti. «Il nostro ristorante, che poi gestivo io, sotto la raffinata consulenza di mio marito, era frequentato da bellissima gente, è stato per molti anni un locale molto alla moda, ben frequentato, avevamo un bellissimo giardino, nonostante fossimo in centro, ed un’ottima orchestra. Il personale era molto competente e lavoravamo moltissimo; io non avevo molto tempo per occuparmi della depressione di Piero, abbiamo avuto però, prima una mia cugina che gli ha fatto da madre e poi buone ragazze come baby-sitter. I nostri clienti: aristocratici, persone di spettacolo, della politica o dell’alta finanza. Volevano sempre salutarlo e spesso riceveva regali splendidi. Lui però si annoiava molto, non parlava mai. Ma stava bene in complesso. Solo una volta vomitò e lo trovai nel suo lettino sommerso dal vomito. Era piccolo, non ricordo esattamente. Era solo, mi aveva chiamato più volte; avevamo un appartamento sopra il ristorante. Io non l’ho sentito. Lui chiamava sempre. Ma io volavo per occuparmi di tutto, facevamo tutto espresso, e volevo che ogni cliente si sentisse privilegiato e seguito. Ora è sempre molto chiuso, parla molto poco di sé, anche con i suoi amici e le sue donne, ricevo le confidenze degli altri, ma non fa mai le sue. Forse nessuno conosce il vero Piero com’è dentro. Anche con mio marito sembra che si apra ma di sé dice poco io credo». Interviene il marito che la interrompe quasi e dice: «Non c’è molto da dire, cosa vuoi che dica, anche io ho parlato poco nella mia vita di me, e poi con chi parli? Qui stiamo dicendo cose mai dette prima, e anche Piero parlerebbe con la dottoressa, ma queste cose così personali a chi le dici? Io preferisco restare a casa in vestaglia, con i miei mali e i miei quadri, le pratiche, le carte, perché le persone che ti danno? A stento vedo gli amici perché vengono a casa, altrimenti non li vedrei. Piero ha lo sport, è un leader, maestro di sci acrobatico, di nuoto e di pesca subacquea, di tennis, gioca benissimo a calcetto, a calcio, pensi che lo voleva la “Roma”. Non ha problemi di lavoro, ha molti amici, per lui telefonano molte donne, viaggia moltissimo, anche recentemente ha fatto un lunghissimo viaggio in Africa, quasi un’avventura. Sta bene a casa con noi, ha solo problemi con il fratello perché lo vede immaturo, irresponsabile e non lo sopporta, ma adesso comincia ad andare un po’ meglio». Dice la moglie che il piccolo, Franco, vorrebbe essere come il fratello, cerca di imitarlo negli sport, ma ogni tanto si fa male alle ginocchia e sempre in modo grave. Ammira il fratello e si strugge perché vorrebbe essere suo amico. Mi chiede cosa penso io del marito che sta in casa, non vuole più viaggiare, mentre lei girerebbe tutto il mondo, specialmente ora che non lavora più nel ristorante. Lo ha lasciato, ma non ha venduto la licenza perché nessuno potesse riaprire un locale gestito in sua vece, ma con minore cura. «Abbiamo tenuto il bar perché richiede meno attenzione e si può affidare ad un direttore e al personale» dice. Ipotizzo che forse il marito riesce ad avere con costanza molte attenzioni, la sua presenza, menù accurati e personali cioè quei guadagni secondari della malattia, privilegi che già suo fratello aveva dalla madre, per essere in una situazione di svantaggio. Lui tace e poi dice: «Mi piace essere accudito come un bambino». Lei aggiunge: «Io mi sento sacrificata, sono vitale, ho gusti diversi, sono meno raffinata di lui, non capisco molti quadri che lui compera per cifre astronomiche, viaggerei sempre, conosco bene l’inglese, amo i paesi orientali, quelli lontani, sono attratta dai profumi, dalla gente, dalla vita, mi piace mangiare le cose semplici ed i piatti tradizionali delle varie culture e impazzisco per Londra, come se fosse la mia città. Ci sto bene, mi muovo bene come se ci fossi stata da sempre. Lui è così e io adesso viaggio meno da sola. Con lui bisognerebbe stare attenti a tutto: l’aria, il cibo e la stanchezza. Viene volentieri nelle nostre case al mare e in montagna perché continua il suo ritmo. I ragazzi vanno in giro da soli, con gli amici, qualche volta chiedo a Piero di accompagnarmi, Una volta siamo stati insieme in Brasile, eravamo perfetti, pur parlando poco, lui mi capisce e mi protegge quasi. Io sto bene con lui».
Interviene il padre: «Fra due giorni Piero parte per un’isola con altri amici, vanno a pescare, pesca subacquea, ama molto il mare, non avranno una sede, vanno in giro con la barca e il camper nelle zone meno turistiche, lui porterà anche la sua potente moto per trovare un telefono e darmi notizie. Sono più tranquillo e mi racconta cosa pesca. Scende senza bombole oltre i 25 metri». Dice la madre: «Gli chieda lei dottoressa, di fare bene prima i controlli sanitari, a me non mi ascolta!». «Li fanno sempre Laura. Piero è responsabile; e poi è sano, lo sai».

Interviene il padre.
È giugno, quasi la fine, decidiamo di risentirci dopo l’estate, loro partiranno per il mare. Lei mi chiede se può chiamarmi qualche volta. Dico di sì, se ne sente il bisogno. Lui aggiunge: «Ormai lei fa parte di noi più di ogni altro». Mi saluta con molto affetto e mi trattiene un po’ la mano. Mi chiede se può chiamarmi il figlio prima di partire dato che ha espresso il desiderio di salutarmi e di ringraziarmi. Rispondo di sì e accenno agli orari. Rimango anche un po’ emozionata.
Il figlio mi ha chiamata, ha chiesto di vedermi, solo per salutarmi, è venuto, contrariamente alle mie abitudini, è andato via dopo dieci minuti perché avevo un appuntamento come gli avevo detto.
Sul mio tavolo sono rimasti i suoi occhiali, non li ho visti subito, erano in una custodia.
Dopo dieci giorni ricevo una telefonata dalla signora Laura, alle sette del mattino; la sua voce è strozzata dal dolore: è morto Piero. Durante una ultima immersione, mentre era pronto per rientrare la stessa sera; gli è scoppiato il cuore in acqua dopo una giornata di pesca eccezionale mentre i suoi amici lo aspettavano a riva per partire.

La madre è arrivata nell’isola in aereo con il figlio minore, ha trovato Piero, erano passate solo due ore, esanime sulla barca che lo aveva soccorso, aveva gli occhi e la bocca sporchi di sangue, le braccia aperte, il corpo abbandonato. Al suo polso un orologio continua a funzionare e la madre lo guarda un po’. La notizia della morte di Piero il padre la apprende dal figlio minore che gli dice: «Non hai più Piero, ora ci sono io per te». Piero è stato sepolto con la stessa muta da pesca che portava al momento della disgrazia.
Il padre, Mario, durante il trasporto funebre del figlio ha cominciato ad avere molto male alle orecchie. Dopo una settimana comincia ad avere problemi di vario genere ed anche alcuni fastidi agli occhi. Viene ricoverato in una clinica privata dove è assistito da molti specialisti, alcuni, arrivati per lui da fuori, decidono di intervenire per emorragia cerebrale e sdrammatizzano sull’intervento. Aveva voluto vedermi, prima di entrare in sala operatoria, sono andata e mi ha detto: «Sono molto sereno, sono pronto a raggiungere Piero; prima di immergersi per l’ultima volta mi aveva chiamato per dirmi che rientrava, le ultime parole che ricordo di avere sentito di lui sono: “Papà ti voglio molto bene”». Ha pianto due lacrime, le sole, mi ha detto la signora poi, mentre le infermiere lo portavano nella sala operatoria: ero sola, si è sollevato un po’ e mi ha sorriso.
Ha superato bene l’intervento chirurgico ma mentre si preparava a lasciare la camera della clinica, per tornare a casa si accascia sul letto. Spira dopo un mese esatto dalla morte del figlio.

Carita Marotta Trapani
Nelle mie esperienze con le coppie sono stato profondamente impressionato dal carattere e dallo stile della scoperta, e della scelta dell’oggetto oltre che dalla modalità di stabilire un rapporto con esso. Sono gradualmente arrivato a vedere come una delle caratteristiche inconfondibili dell’oggetto trovato e scelto fosse la sua potenzialità ad essere usato come oggetto transizionale, nel quale, con gli attributi e le proiezioni reciproche, ciascun coniuge percepisce in qualche misura l’altro contemporaneamente sia come oggetto interno ed esterno. Diciamo che ad un livello profondo la coppia ha uno scopo comune, e mi sembra che, in questa coppia in particolare esso sia la difesa organizzata contro la depressione.

Winnicott (7) ha descritto le numerose funzioni, diverse ma correlate, dalla difesa maniacale in questi termini:
«1. diniego della realtà interna;
2. fuga dalla realtà interna alla realtà esterna;
3. mantenimento delle persone della realtà interna in “animazione sospesa”;
4. diniego delle sensazioni di depressione, cioè l’oppressione, la tristezza, tramite sensazioni specificamente opposte, leggerezza, gaiezza, ecc. L’impiego di quasi tutti gli opposti nella rassicurazione contro la morte, il caos, il mistero, ecc., idee che appartengono al contenuto fantastico della posizione depressiva».

Insieme alla loro coazione a condividere la fuga dalla realtà interna alla realtà esterna, c’è il bisogno della mutua rassicurazione o illusione che il diniego della realtà interna possa essere mantenuto per sempre.
In realtà la scelta del partner era una scelta per contrasto, in cui la signora Laura, dall’aria gioviale e discreta, bionda, obesa, casalinga, era fisicamente ed emotivamente l’antitesi della madre del signor Mario, esile, bella, sensibile. D’altra parte l’alto, magro intelligente signor Mario rassicurava la moglie che non sarebbe mai entrata in contatto con l’immagine del padre ed i sentimenti a lui connessi. Infatti, anche a livello dei loro rapporti col mondo esterno, la loro vita era organizzata intorno a questa collusione: lui immerso nel suo mondo d’arte, di collezionista, nella sua ricerca ocnofilica (Balint), all’opposto del filobatismo espresso con i viaggi all’estero, le case sparse dappertutto, le passeggiate, gli odori e le scoperte al di fuori della casa.
Mi sembra che il ruolo dei fattori inconsci sia più dinamicamente operativo nel matrimonio che in ogni altro rapporto umano. L’ipotesi che vorrei formulare in questo caso specifico è che l’Io, dopo un’esperienza talmente traumatica e sconvolgente per entrambi, abbia organizzato una costante distanza difensiva e una dissociazione.
Lo sfruttamento dell’ambiente con gli artefatti sociali (parties, cibo, musica, ballo, arte, pettegolezzi, ecc.) era il risultato di una manipolazione difensiva per mantenere il diniego del terrore depressivo interno. Caratteristica del quadro totale è la resistenza ad ogni cambiamento ed elaborazione, non solo come coppia, ma anche come genitori. Questo ha reso impossibile alla signora Laura avviare i processi della gravidanza e di entrare in contatto con i suoi sentimenti relativi alla preoccupazione materna primaria, all’allattamento, alla condivisione della crescita dall’infanzia all’adolescenza e allo stato adulto del figlio.

Il suo rapporto con Piero è rimasto sempre impersonale, di qui le sue esigenze simbiotiche ed il bisogno di percepire Piero attraverso rassicurazioni esterne, come il fatto che lui fosse ben nutrito, robusto, bello, precoce, vincitore di premi, un vero campione, universalmente amato ed apprezzato da tutti e per tutto. Era come percepirlo attraverso gli altri. E nonostante i tentativi del signor Mario di essere come ogni altro padre, e creare un rapporto con Piero, dichiarando che erano amici, Piero era irraggiungibile ed entrambi sapevano che c’era qualcosa in Piero che li spaventava. Piero ha vissuto la sua prima infanzia isolato e la sua adolescenza in uno stato di innocenza organizzata. I suoi rapporti e le sue attività erano senza significato, la sua unica preoccupazione erano i genitori. Li rassicurava che non li avrebbe mai abbandonati, che avrebbe avuto cura di loro, dichiarando costantemente il suo amore e la sua devozione. Non rimanevano sentimenti per nessun altro investimento emotivo, neanche per il proprio figlio, totalmente negato.

Si ha l’impressione che prendendosi cura degli aspetti più danneggiati dei genitori e della loro profonda depressione, e diventando il guardiano e il protettore del loro Sé nascosto, ogni tentativo di Piero di investire sufficientemente i propri confini e costruire un proprio spazio privato divenga inadeguato e mai abbastanza separato da metterlo in grado di sperimentarsi come un soggetto.

Nel suo scritto Lutto e melanconia Freud afferma: «È facile vedere che questa inibizione e limitazione dell’Io è l’espressione di una devozione esclusiva al lutto che non lascia nulla per altri scopi o interessi».
Sulle vicissitudini dell’esperienza del dolore psichico, Pontalis sottolinea le modalità psichiche con le quali egli lo sperimenta: fantasia, memoria o immaginazione, in relazione tra loro o no.
In tutto il mio lavoro con genitori che mantengono una grave patologia collusiva post traumatica non elaborata, ho potuto constatare che i figli assumono spesso una funzione essenziale nei confronti degli oggetti genitoriali danneggiati sia esterni che interni.
In queste condizioni il bambino viene precocemente coinvolto nel collage della patologia collusiva genitoriale. Ciò non ha altri scopi se non quello di mantenere unito il collage patologico genitoriale.

Allora sono i figli che paradossalmente devono diventare la membrana diadica, il contenitore dei genitori, rappresentata, pensavo anche, abbastanza chiaramente nel simbolo degli occhiali con la custodia, finalmente lasciato da Piero sulla scrivania della terapeuta.
Winnicott parla, a questo proposito di “Falsa Restituzione” dei figli nei confronti dei genitori. Questa falsa restituzione e riparazione si esprime attraverso l’identificazione del bambino con la parte dei genitori che non ha subito la dissociazione della difesa maniacale, cioè con la loro parte più profonda, traumatizzata e terrificante, il luogo dove ogni loro difesa maniacale fallisce, il punto dolente, mai elaborato, l’interruzione traumatica dei loro rispettivi Sé, che ha acquisito il senso di un punto di non ritorno. C’è come un tentativo onnipotente da parte del bambino di ristabilire la continuità.

Winnicott sottolinea che il fattore predominante in questi casi è il fatto che questi bambini, attraverso la collusione dei processi somatici dell’Io e le funzioni dell’Io, vengono usati per sostenere l’auto-inganno terapeutico dei genitori, e scrive: «Si vedrà che questi bambini in casi estremi hanno un compito che non potrà mai essere portato a termine. Il loro compito è prima quello di doversi confrontare con l’umore della madre. Se hanno successo nel compito diretto, tuttavia, essi non fanno di più che riuscire a creare un’atmosfera in cui possono cominciare le proprie vite».
Ciò che è evidente è che per contenere il collage genitoriale mai integrato, le parti, purtroppo è inevitabile che esplodano. Naturalmente, a causa della mancata elaborazione, l’unica cosa che rimane inalterata è il tempo.


Bibliografia

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  2. Balint M., Balint E. (1968), The Basic Fault, in La regressione, Cortina, Milano, 1983.
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  4. Freud S. (1917), Lutto e melanconia, in Opere, voI. VIII, Boringhieri, Torino, 1976.
  5. Giannakoulas A., Giannotti A. (1984), Il setting con la coppia genitoriale, in Il setting, Borla, Roma.
  6. Pontalis I.B. (1977), Entre le rêve et la douleur, Editions Gallimard, Parigi (tr. it., Tra il sogno e il dolore, Borla, Roma, 1991).
  7. Winnicott D.W. (1935), La difesa maniacale, in Dalla pediatria alla psicoanalisi, Martinelli, Firenze, 1975.