Questi concetti si ritrovano sia nei lavori di Pichon-Rivière, che nelle mie ricerche. L’interesse di metterli a confronto è legato da una parte al fatto che essi si sono sviluppati in contesti diversi e secondo differenti evoluzioni. Abbiamo operato indipendentemente l’uno dall’altro e nelle nostre rispettive evoluzioni abbiamo sentito il bisogno di crearli o di prenderli in considerazione perché sono apparsi ad entrambi indispensabili all’intelligibilità dei processi e delle formazioni psichiche di cui cerchiamo di render conto. Ho già chiarito di aver conosciuto alcuni testi di Pichon-Rivière nel 1980 grazie ad Ana de Quiroga che me li segnalò al Congresso internazionale di psicoterapia di gruppo di Copenaghen[i]. Facendo una dedica al «continuatore del pensiero di Pichon-Rivière» ella pensava al mio lavoro sui gruppi. Questo evento mi portò l’anno seguente ad approfondire la conoscenza dello spagnolo per leggere Pichon, come lo chiamano i suoi collaboratori.
Devo dire che ho avuto bisogno di tempo, il tempo necessario per comprendere ciò che ci avvicinava a mia insaputa e che era stato rivelato da questa affiliazione putativa. Come potevo considerarmi continuatore di un pensiero che non aveva fatto parte della mia formazione? Come ripensare il proprio pensiero quando vi si offre di metterlo in relazione con quello di un altro, scoprendo nel medesimo tempo di esserne l’erede, all’insaputa di entrambi i protagonisti? È una esperienza molto forte, gratificante, ma allo stesso tempo estremamente inquietante, nella misura in cui risvegliafantasmi edipici.
Facevo, quindi, progressivamente conoscenza del pensiero di Pichon-Rivière. Ne ammiravo l’agilità dialettica, l’erudizione, la forza innovativa. Tuttavia avevo sempre più l’impressione che le letture più recenti per preparare questo articolo hanno precisato: avevo a che fare con dei Pichon multipli. Incontravo così lo psichiatra geniale che inventava la psichiatria sociale e rinnovava la comprensione dell’epilessia e della psicosi, il clinico eccezionale rivelato dalle trascrizioni dei suoi seminari e dalle testimonianze dei suoi discepoli e dei suoi colleghi, l’inventore ed il frequentatore dei percorsi spesso folli della creazione, il teorico del legame, del soggetto, del gruppo. Tra questi Pichon potevo cogliere dei percorsi necessari ma, con maggiore difficoltà, individuavo delle cadute di tono, di riferimenti, di stile. Il Pichon che leggevo negli scritti degli ultimi anni, più incline a ricorrere ai concetti della psicologia sociale sistemica ed alle categorie del materialismo dialettico che rapporto aveva con quello che aveva lavorato con i concetti della psicoanalisi? Solo i contemporanei di Pichon potrebbero aiutarmi a chiarire questa impressione.
Mi incontravo così con una sorta di doppio che utilizzava delle nozioni che io forgiavo da parte mia, credendo di apportare delle innovazioni, un doppio che però non coincideva completamente con il mio universo mentale, ma che anzi in certi punti mi faceva pensare di essere su posizioni opposte alle sue. Io sono partito dalla psicologia sociale, per andare verso la psicoanalisi, lui ha seguito il percorso inverso. Queste differenze mi ponevano degli interrogativi: ero soprattutto colpito e interessato dall’emergenza stessa di alcune di queste nozioni che avevamo in comune e che mi sembravano simili e differenti, quasi che attestassero una necessità interna a ciascuna delle nostre ricerche. Consideravo questa concomitanza come una sorta di validazione delle problematiche che avevamo messo in luce, se non dei concetti attraverso i quali tentavamo di formulare un pensiero intorno ad esse. Questa sorta di convergenza non poteva avere un valore probatorio maggiore, che faceva anche emergere le differenze o le divergenze di questi due processi? Stavo dunque attento anche alle nostre differenze seguendo l’idea che la vicinanza di certi concetti non significava necessariamente che fossero sovrapponibili o convergenti. Ciò che continuava a porsi, ciò in cui potevo riconoscermi se non come un continuatore, almeno come un interlocutore del pensiero di Pichon, era l’insistenza sui fenomeni dell’intersoggettività come processo di formazione del soggetto e il desiderio di trovarvi una risposta. Proverò quindi a chiarire in che termini le questioni e le soluzioni proposte da Pichon Rivière e quelle che io ho elaborato si sviluppano in elaborazioni teoriche differenti.
I gruppi interni
L’accesso a questa nozione si realizza, per Pichon-Rivière, attraverso la psicopatologia: il trattamento dei pazienti psicotici gli impone l’evidenza de «l’esistenza di oggetti interni, di molteplici “imago” che si articolano in un mondo costruito secondo un processo progressivo di interiorizzazione»[ii]. Questo mondo interno per lui, come per me, si configura come una scena, ma per Pichon Rivière è su questa scena che è «possibile riconoscere la dinamica dell’interiorizzazione degli oggetti e dei loro rapporti»[iii].
Ciò che Pichon chiama mondo interno o gruppo interno è la ricostituzione della trama relazionale, del sistema dei rapporti intersoggettivi e sociali da cui emerge il soggetto: egli descrive così «le relazioni intrasoggettive, o strutture di legame interiorizzate e articolate in un mondo interno»[iv]. Esse sono prodotte da un processo di interiorizzazione attraverso il passaggio fantasmatico da un sistema di rapporti esterni (intersoggettivi e sociali) ad una interrelazione «intrasistemica». I gruppi interni sono dei modelli interni che orientano l’azione nei confronti degli altri nei rapporti intersoggettivi: su questo punto mi sento vicino a lui, ma me ne differenzio perché penso che i gruppi interni siano anche degli organizzatori dì azioni intrapsichiche.
Una tale concezione di gruppi interni è molto dipendente da una problematica psicosociale. Per Pichon-Rivière l’intrapsichico è in definitiva un effetto psicosociale. Arriva a dire che «il gruppo costituisce [dunque] il campo operazionale privilegiato di questa disciplina [la psicologia sociale]» e precisa, ciò che ci interessa a riguardo, che questa proprietà gli viene «dal fatto che permette la ricerca del gioco tra lo psicosociale [gruppo interno] e il sociodinamico [gruppo esterno]»[v]. Ma scrive anche qualche riga dopo: «Come disciplina che ricerca l’interazione sotto questi due aspetti, intersoggettivo [gruppo esterno] e intrasoggettivo [gruppo interno], la psicologia sociale […]». Il punto è che per Pichon-Rivière il campo dello psicosociale è anche, in certe definizioni, quello dell’intrapsichico e l’uno e l’altro sono opposti ed articolati al campo del sociodinamico (gruppi esterni che si sviluppano dall’intersoggettivo).
I riferimenti di Pichon alla psicologia di Lewin, a quella di G.H. Mead, alla Critica della ragione dialettica di Sartre, al marxismo di Henry Lefèbvre sembrano aver prevalso sull’invenzione di una problematica fondata sulle proposizioni fondamentali della psicoanalisi. Provo tuttavia difficoltà a spiegarmi se questo predominio si sia fondato per lui su una reale critica della psicoanalisi – secondo le mie conoscenze, non l’ha mai portata avanti[vi] – o su delle scelte e dei postulati ideologici personali, che gli sembravano vantaggiosi proprio ad aprire lo spazio di un’azione terapeutica, mettendo in cantiere tutta la questione dei rapporti del sociale, dell’inter-soggettività, e dello spazio intrapsichico[vii]. È vero che numerosi psichiatri in Europa, particolarmente in Francia, fanno coesistere l’ipotesi della psicoanalisi con gli statuti principali di altri universi di pensiero: in particolar modo la corrente della psicoterapia istituzionale. L’accesso alla nozione di gruppo interno si determinerà per me in maniera diversa da quella di Pichon-Rivière: attraverso lo studio (1965-1968) delle rappresentazioni del gruppo come oggetto nel senso che da a questa problematica J.B. Pontalis. Ho portato avanti queste ricerche in due tempi: sulle rappresentazioni dei gruppi di cui ho cercato di scoprire gli organizzatori inconsci e culturali. Ho descritto i primi come «gruppi interni» organizzati secondo leggi di composizione che obbediscono nello spazio intrapsichico ai processi primari dell’associazione e della permutazione. In un secondo tempo (1968) ho iniziato a studiare gli effetti della gruppalità psichica nell’organizzazione dei processi di gruppo ed a mettere a punto il modello dell’apparato psichico gruppale distinguendo due modalità principali (isomorfica ed omomorfica) di accoppiamento. Ho, dunque, esteso il concetto fino a considerare i gruppi interni e la gruppalità psichica delle formazioni a partire dalle quali la realtà psichica interna poteva essere articolata con la realtà propria del gruppo[viii]. Precisiamo questi concetti. Dal mio punto di vista il concetto teorico di gruppo interno può descrivere formazioni e processi intrapsichici nella prospettiva secondo la quale le relazioni tra gli elementi che le costituiscono sono ordinati da una struttura di gruppo. Un gruppo interno è una configurazione di legami tra pulsioni e oggetti, le loro rappresentazioni di parola o di cosa, legami tra istanze, imago o personaggi. In tali configurazioni di legami, il soggetto stesso si manifesta direttamente o attraverso le sue rappresentazioni. Questo approccio strutturale ai gruppi interni, mette l’accento sui sistemi delle relazioni tra elementi definiti per il loro valore di posizione correlativa, riuniti e ordinati da una legge di composizione: lo scarto differenziale tra gli elementi genera la tensione dinamica della struttura. Un tale sistema è dotato di principi di trasformazione che mobilizzano diversi meccanismi legati ai processi primari: condensazione, spostamento, permutazione, negazione, inversione, diffrazione. Una proprietà funzionale dei gruppi interni è la loro disposizione scenica e sintagmatica, disposizione atta a drammatizzare la collocazione degli oggetti ed i loro spostamenti, secondo gli scopi dell’azione psichica da realizzare, secondo le necessità della dinamica e dell’economia psichica.
Secondo questa definizione, la struttura fondamentale dei gruppi interni definisce altrettanto bene i fantasmi originari, i sistemi di relazione oggettuale, l’Io, la struttura delle identificazioni, i complessi e le imago, compresa quella della psiche, l’immagine del corpo. Ho distinto il fantasma dai gruppi interni paradigmatici, per un duplice motivo: il suo approccio strutturale descrive perfettamente il concetto di gruppo interno ed anche perché la relazione oggettuale prende consistenza in relazione alla fantasmatica che la sostiene.
Avevo proposto alla fine degli anni ‘60, la formula «l’inconscio strutturato come un gruppo» fin da allora mi sembrava necessario pensare la gruppalità psichica nel suo rapporto con l’Inconscio. Sia la clinica, che la lettura dei testi di Freud, mi ha confermato nell’importanza di trasformare la formula in ipotesi di lavoro. Più in generale, sono le istanze ed i sistemi[ix] dell’apparato psichico che vanno concepiti come gruppi psichici differenziati all’interno dei quali operano degli sdoppiamenti, delle diffrazioni o delle condensazioni: le identificazioni multiple (o polivalenti) dell’Io.
In altre parole, i gruppi interni sono sottomessi all’ordine proprio delle formazioni e dei processi psichici, e in rapporto ad essi svolgono funzioni specifiche. Proponendo questa ipotesi sostengo un punto di vista diverso da quello di Pichon-Rivière sulla modalità di formazione o di produzione dei gruppi interni e sulle loro funzioni. Per quello che mi riguarda, i gruppi interni sono forme della gruppalità psichica. Non sono il prodotto esclusivo dell’interiorizzazione o dell’internalizzazione dei processi intersoggettivi o sociali: le forme della gruppalità psichica fanno parte della struttura della materia psichica. Sono, in parte, strutture intrapsichiche fondamentali, primarie o primordiali, che già esistono. Secondo questa prospettiva, la gruppalità psichica è un’organizzazione ed un funzionamento specifico della psiche, essa la caratterizza immediatamente. Se do così una consistenza alla formazione ed alla logica endopsichica, non dimentico però i processi intersoggettivi legati alla formazione ed alla funzione di certi gruppi interni. Preferisco sostenere in questo caso la tesi epigenetica perché accetta un’efficienza dell’internalizzazione a condizione di postulare strutture preliminari che si attivano e si auto-organizzano nel momento stesso in cui sono sollecitate. È in queste condizioni che i gruppi interni mi appaiono secondariamente come acquisizioni e creazioni per incorporazione o introiezione degli oggetti perduti e ricostruiti.
Ho precisato questa prospettiva nei miei due ultimi lavori tentando di mostrare che l’analisi dei gruppi interni è quella del processo associativo/dissociativo attraverso il quale il soggetto organizza la sua attività psichica e la rappresenta a se stesso ed agli altri. Questi «altri» non sono solamente figure o rappresentanti delle pulsioni, degli oggetti parziali, delle rappresentazioni di cosa o di parola del soggetto stesso, nei loro rapporti in quanto sono correlati e coerenti nello spazio psichico o associati e dissociati dal lavoro dell’inconscio. Sono anche degli altri non riducibili a quello che essi rappresentano per più di un altro. Costituiscono i termini delle correlazioni di soggettività secondo la felice formula di Benveniste.
I gruppi psichici, la psicoanalisi e l’inconscio
Come iscrivere la concezione dei gruppi interni nella psicoanalisi? Anche in questo il mio approccio differisce da quello di Pichon. Per concepire la nozione di gruppi interni io non sono partito dalla psicologia sociale. Per ragioni legate in larga parte al contesto francese e alla diffidenza che suscita ancora oggi negli ambienti psicoanalitici la ricerca sui gruppi, molto spesso etichettata come deriva verso la psicologia sociale, ma anche per motivi personali, ho avuto cura di confrontare le mie ipotesi con gli enunciati clinici e speculativi di Freud, non privilegiando nessuna parte della sua opera, particolarmente quella detta di psicoanalisi applicata. È così che nel dibattito epistemologico che apre l’approccio psicoanalitico di gruppo, ho accordato una particolare attenzione alle formulazioni freudiane concernenti la rappresentazione della psiche come gruppo e come attività di raggruppamento/disarticolazione. Dal Progetto fino alla fine della sua opera – e particolarmente al momento della costruzione della seconda topica – quello del gruppo, come modello di relazioni logiche e come modello antropomorfico di relazioni intersoggettive, non cesserà di costituire per Freud uno dei modelli più costanti dell’apparato psichico. È a partire da queste ricerche e da ciò che mi ha insegnato la cura individuale che ho potuto sostenere che la gruppalità psichica è una nozione originaria della psicoanalisi. Nello sviluppo dell’opera di Pichon-Rivière, come nella logica delle mie ricerche la necessità del concetto di gruppo interno si è imposta per rendere conto dell’articolazione piena di interrogativi tra l’intrapsichico e l’interpsichico, tra il soggettivo e l’intersoggettivo. Ma le nostre rispettive proposizioni riflettono differenti problematiche e i nostri concetti producono degli effetti di lavoro differenti.
Legame e intersoggettività
Nella prefazione del suo libro Il processo gruppale. Dalla psicoanalisi alla psicologia sociale[x], Pichon-Rivière precisa che la ricerca psicoanalitica sul mondo interno l’ha condotto ad «allargare il concetto di relazione oggettuale, arrivando a proporre la nozione di legame». Definisce quest’ultimo «come una struttura complessa, che comprende un soggetto, un oggetto e le loro mutuali relazioni con dei processi di comunicazione e di apprendimento». La questione del legame è centrale nell’opera di Pichon. Un opera intitolata dai suoi discepoli Teoria del vinculo [Teoria del legame] è stata pubblicata a cura di Fernando Terragano nel 1980. L’opera mette insieme i materiali raccolti in un corso sulla metodologia del colloquio nella cornice dell’Apa dall’ottobre 1956 al gennaio 1957. La raccolta è composta di dodici corti capitoli nei quali Pichon affronta, dopo aver esposto alcune considerazioni generali sul legame, la patologia del legame, la relazione tra legame comunicazione e apprendimento (soprattutto dialettica dell’apprendimento), le differenze tra legami razionali e legami irrazionali, il legame come campo d’interazione (unità dialettica d’interazione) e di condotta, i rapporti tra legame, identificazione introiettiva e proiettiva, legame e interpretazione, lo Scro, il legame e la «teoria delle tre D» (deponente depositario e depositato) e infine il legame e la teoria psicoanalitica.
Anche qui la sua riflessione prende avvio dai problemi posti dal trattamento della follia dal punto di vista della psichiatria sociale alla quale egli lavora per fornire gli strumenti concettuali. Un gran numero di questi sono improntati alla psicosociologia della comunicazione ed alla teoria dei ruoli. Un approccio di questo tipo considera una concezione del soggetto non come essere isolato, ma incluso in un gruppo il cui fondamento è la famiglia: la concettualizzazione che ne risulta è dunque, secondo Pichon, essenzialmente psicosociale, sociodinamica e istituzionale poiché il gruppo familiare è inserito nel campo sociale che gli conferisce la sua significazione. È così che la comparsa della psicosi in un membro della famiglia è un «emergente» originale che esprime e prende in carico la malattia mentale di tutta la famiglia: il delirio costruito da un membro della famiglia deve dunque intendersi come un tentativo di risoluzione di un determinato conflitto e, allo stesso tempo, come un tentativo di ricostruire non soltanto il proprio mondo individuale, ma principalmente quello del suo gruppo familiare e, secondariamente, il sociale stesso.
Questo è il retroterra del suo approccio al legame che egli differenzia dalla relazione oggettuale. «Perché utilizziamo il termine legame? In realtà siamo abituati a utilizzare la nozione di relazione oggettuale nella teoria psicoanalitica, ma la nozione di legame è molto più concreta. La relazione oggettuale è una struttura interna del legame che a sua volta è un tipo particolare di relazione oggettuale; la relazione oggettuale è costituita da una struttura che funziona in una maniera determinata. È una struttura dinamica in continuo movimento, azionata e spinta da fattori istintuali e motivazioni psicologiche. Potremmo dire che la nozione di relazione oggettuale è ereditata dalla psicologia atomistica, mentre il legame è una cosa differente che include la condotta. Possiamo definire il legame come un tipo particolare di relazione con un oggetto; da questa particolare relazione risulta una condotta più o meno fissa con questo oggetto, la quale forma un pattern, un modello di comportamento che tende a ripetersi automaticamente sia nella relazione interna che nella relazione esterna con l’oggetto. Abbiamo così a che fare con due campi psicologici nel legame: un campo interno ed un campo esterno. Sappiamo che ci sono oggetti esterni ed oggetti interni. È possibile stabilire un legame, una relazione oggettuale con un oggetto interno e nondimeno con un oggetto esterno. Possiamo dire che ciò che ci interessa di più dal punto di vista psicosociale è il legame esterno, mentre dal punto di vista della psichiatria e della psicoanalisi quello che ci interessa di più è il legame interno e, cioè, la forma particolare che l’Io assume legandosi con l’immagine di un oggetto localizzato dentro di sé […][xi]».
Il concetto di legame proposto da Pichon-Rivière è il risultato di un’altra sorta di determinazione: non nasconde il suo progetto di arrivare a sostituire la struttura del legame al concetto di istinto, considerando la struttura di legame come effetto di un proto- apprendimento, come il veicolo delle prime esperienze sociali che costituiscono il soggetto stesso, sulla negazione del narcisismo primario. Nella prefazione a Il processo gruppale. Dalla psicoanalisi alla psicologia sociale, Pichon-Rivière ha precisato che questa posizione significava una rottura con il pensiero psicoanalitico «ortodosso» e che egli in questo modo ha potuto superare un ostacolo epistemologico importante. Come ho già sottolineato una costante della sua teoria del legame è in effetti di sostenere che è nell’interazione che si produce l’interiorizzazione della struttura della relazione: quest’ultima diventa intrasoggettiva sotto l’effetto dell’identificazione introiettiva e proiettiva, ma Pichon la descrive anche in termini di interazione e di comunicazione (emittente-recettore).
Il destino toccato alle pulsioni nel legame non conduceva forzatamente Pichon a tracciare un cammino che va dalla psicoanalisi alla psicologia sociale? Un percorso del genere non si propone inevitabilmente in ogni progetto che intenda trattare dell’intersoggettività e del legame se non procediamo ad una critica dei postulati epistemologia che sottendono a questi concetti?
Anche se ho seguito un percorso inverso a quello di Pichon, ci accomuna una questione: proponendoci di introdurre una problematica del legame associata a quella dell’intersoggettività, è importante innanzitutto sottolineare come questi non siano né problematiche né concetti originari della psicoanalisi. Il nostro compito è proprio quello di dar loro un fondamento a partire da due fonti principali: quella della clinica psicoanalitica comparata della cura individuale e dei dispositivi di gruppo e quella della critica della teoria psicoanalitica. La ragione potrebbe essere che la questione del legame come quella dell’intersoggettività sono questioni paradossali in psicoanalisi: sono clinicamente indispensabili, ma malgrado esse affiorino costantemente nei modelli teorici dell’apparato psichico proposto dalle due topiche, non vengono elaborate in oggetti del pensiero teorico. Bisogna venire a patti con l’origine del concetto nella fenomenologia e nella linguistica pragmatica. Il concetto di intersoggettività ha ugualmente uno statuto in psicologia sociale e in sociologia. Proporne la costruzione nel campo psicoanalitico implica certe condizioni, in particolare quella di liberarsi da una serie di malintesi contenuti nei significati acquisiti da questi concetti. Il senso che potrebbe acquistare obbliga ad una costruzione che mantiene aperta al centro della ricerca la questione dell’inconscio.
Io inscrivo la questione del legame nel quadro più generale di una teoria psicoanalitica dell’intersoggettività. Il progetto di costituire l’intersoggettività come oggetto teorico e come dispositivo metodologico nella psicoanalisi non può evitare una doppia metapsicologia: quella del soggetto dell’inconscio in quanto è «soggetto del gruppo» e quella degli insiemi intersoggettivi dal momento che formano e regolano una parte specifica della realtà psichica. Il mettere in prospettiva reciproca questi due spazi parzialmente eterogenei, dotati di logiche e di formazioni specifiche definisce il campo di una nuova clinica psicoanalitica reperibile altrettanto bene sia nella pratica della cura individuale che nella pratica del lavoro psicoanalitico nel gruppo.
Il campo teorico da costituire è organizzato attraverso la ricerca delle strutture e dei processi psichici che si costituiscono nei punti di snodo delle formazioni inconsce tra il singolo e gli insiemi intersoggettivi, attraverso i loro scarti e i limiti delle loro trasformazioni. La metapsicologia di questo campo richiede l’ipotesi di una topica doppiamente determinata, di una economia mista di investimenti e di scambi, di una dinamica di interferenza e se ammettiamo questo punto di vista, di una co-genesi (o di una co-epigenesi) di queste formazioni e di questi processi.
Come Pichon-Rivière io includo il concetto di relazione oggettuale nella definizione di legame e mantengo anche la distinzione tra oggetti interni ed oggetti esterni. Ma credo di porre differentemente i rapporti tra questi termini perché sono subordinati a degli obbiettivi teorici e pratici differenti dai suoi, come hanno già messo in evidenza le nostre concezioni differenti dei gruppi interni.
La nozione post-freudiana di relazione oggettuale ha assunto una importanza crescente dal 1930 e si inscrive in un movimento di idee più vasto: l’organismo non è più considerato isolato, ma in interazione con l’ambiente. Questo punto di vista è stato discusso da Freud sin dal 1905, nei Tre saggi al centro della teoria della pulsione ed era stato precisato nelle note aggiunte da lui nel 1915. L’oggetto è sì ciò a cui mira la pulsione, ma è tenuto in una relazione di appoggio con gli oggetti della madre.
Le teorie delle relazioni oggettuali si distinguono l’una dall’altra per molteplici tratti. Alcune mettono l’accento sull’oggetto piuttosto che sulla relazione o viceversa, altre sulla cattura
«più o meno» fantasmatica dell’oggetto; esse accordano una determinazione decisiva o al peso dell’ambiente (Spitz, Balint, Ròheim…) o alla sola realtà psichica (M. Klein, J. Rivière) ed allo statuto puramente fantasmatico degli oggetti interni, sia al ruolo strutturante delle relazioni d’oggetto di soggetti mutuali in interrelazione (Bion, Winnicott…).
Questo punto di vista è stato particolarmente sviluppato da A. Green che scrive: «Quando la teoria delle relazioni oggettuali cominciò a svilupparsi, si fu dapprima portati a descrivere le azioni reciproche (in termini di processi interni) dell’Io e dell’oggetto. Non si prestò sufficiente attenzione al fatto che nella relazione oggettuale è la parola relazione che è la più importante. In altre parole il nostro interesse avrebbe dovuto orientarsi su ciò che è tra gli elementi che queste azioni uniscono o tra gli effetti delle diverse azioni. In altri termini lo studio delle relazioni è quello dei legami e non quello degli elementi uniti attraverso di essi. È la natura del legame che conferisce al materiale la sua caratteristica propriamente psichica, responsabile dello sviluppo intellettuale» (1974, pp. 240-241).
Ne Il gruppo e il soggetto del gruppo, ho sottolineato che il concetto di relazione oggettuale permette un approccio privilegiato alla gruppalità psichica[xii]: s’interroga immediatamente sulla relazione del soggetto con i suoi oggetti interni nella misura in cui essi stessi sono in relazione con altri oggetti. Questo sistema di relazione definisce una modalità di esistenza del soggetto qualificabile attraverso i suoi investimenti, le sue rappresentazioni, la sua conflittualità, le sue identificazioni e i suoi meccanismi di difesa, nei confronti degli oggetti che lo costituiscono. Il gruppo come Oggetto è una figura peculiare della relazione oggettuale, specialmente per gli effetti di forma e di struttura che si articolano tra lo spazio intrapsichico e quello intersoggettivo. Ma le teorie della relazione oggettuale non sono le teorie dell’intersoggettività; esse mirano a descrivere la relazione oggettuale in quanto costitutiva del soggetto (dell’Io, del Sé), non considerando invece che l’oggetto della relazione oggettuale è il termine di un processo di scambio psichico, e quindi che egli è come soggetto altro, un altro soggetto che insiste e che resiste in quanto altro. «L’altro è altro», scrive E. Levinas.
Termine di scambio vuol dire: oggetti di desiderio, di raffigurazione, di meccanismi di difesa, l’uno garantendo quelli degli altri per garantire i propri. Questo termine implica una legge che regola i rapporti tra i soggetti e rende possibile la scoperta della verità della loro storia nella misura in cui essa è legame. Sono queste le modalità della legge che regolano i legami che ho iniziato ad esplorare con le alleanze inconsce.
Questo modo di concepire il legame intersoggettivo come il legame tra le relazioni oggettuali di soggetti distinti permette di articolare questo rapporto. L’ipotesi che io propongo di esplorare più precisamente è che in questo legame ci sia dell’inconscio. Corrispettivamente esiste un inconscio che sostiene questo legame.
Ciò che differenzia il legame dalla relazione oggettuale è che nel legame abbiamo a che fare con dei soggetti ai quali si pone in una maniera cruciale la questione di che posto dare all’altro nella relazione oggettuale. Abbiamo a che fare con un insieme di soggetti legati tra di loro nello scarto o nella coincidenza in quanto alla relazione oggettuale propria a ciascuno. Quando sono nel legame intersoggettivo mi scontro con l’altro che non posso ridurre alla mia rappresentazione più o meno colorata ! dall’immaginario: l’oggetto della relazione oggettuale non coincide esattamente con l’altro, nella misura in cui è un oggetto irriducibile all’oggetto della relazione oggettuale.
La questione del legame e dell’intersoggettività non si riduce sicuramente a prendere in considerazione il posto e la funzione dell’Altro e degli altri (più di un altro) nello spazio intrapsichico. Questa questione definisce un campo specifico della realtà psichica, un campo nel quale possono essere individuati e descritti processi e formazioni psichiche costituite dai rapporti inconsci dei molteplici soggetti dell’inconscio.
Per precisare le differenze d’orientamento tra le problematiche di Pichon-Rivière e le mie, sottolineerò solamente due aree di ricerca che mantengono le problematiche dalla parte dell’ipotesi dell’inconscio. Tuttavia non si tratta solamente di preoccupazioni teoriche: queste ricerche hanno un’incidenza importante sulla clinica, nella misura in cui esse permettono di definire meglio pratiche terapeutiche, formative o specificamente psicoanalitiche.
La nozione di lavoro psichico dell’intersoggettività: a partire dalle mie ricerche sul processo associativo e le funzioni (forica del porta-parola e del porta-sintomo), ho chiamato lavoro dell’intersoggettività l’esigenza del lavoro psichico dell’Altro o di più di un altro nella psiche dell’inconscio del soggetto. Questa proposizione ha per corollario che la costituzione intersoggettiva del soggetto impone alla psiche certe esigenze di lavoro psichico; essa imprime alla formazione, ai sistemi, alle istanze e ai processi dell’apparato psichico, e di conseguenza all’inconscio, dei contenuti e delle modalità di funzionamento specifici. Il risultato del lavoro dell’intersoggettività è doppio: determina un effetto nello spazio intrapsichico e nella formazione del legame intersoggettivo, la cui realtà psichica e consistenza logica sono irriducibili a quelle dei suoi elementi costituenti. La nozione di lavoro psichico dell’intersoggettività non suppone solamente una determinazione extra-individuale nella formazione e nel funzionamento di certi contenuti dell’apparato psichico: essa riguarda le condizioni nelle quali il soggetto dell’inconscio si costituisce. Eccoci di nuovo rinviati a questa nozione del soggetto, sulla quale anche Pichon Rivière si è espresso. Vediamo rapidamente come.
Le alleanze inconsce (alleanze, patti e contratti): non è questo il luogo per precisare come io sia arrivato a pensare che le alleanze inconsce assicurino funzioni specifiche nello spazio intrapsichico e, come, nello stesso tempo, esse sostengano la formazione e i processi dei legami intersoggettivi che a loro volta confermano formazioni e processi intrapsichici. Riguardo alle alleanze inconsce ho affermato che non si costituiscono solamente per mantenere inconsce delle rappresentazioni, secondo l’interesse congiunto e mutuamente garantito di molteplici soggetti suggellando così il loro legame; ho sottolineato invece che l’alleanza stessa permane inconscia tanto quanto il legame che si ritrova fondato su di essa. Uno degli obbiettivi del lavoro psicoanalitico con i gruppi è quello di sciogliere attraverso l’analisi queste alleanze prodotte per e dal legame intersoggettivo gruppale.
La produzione di sintomi condivisi ha anche questa funzione e questa finalità: assoggettare ogni soggetto al proprio sintomo in rapporto alla funzione che esso svolge nel e per il legame. Il sintomo ne riceve un rinforzo amplificato. Le alleanze inconsce intersoggettive svolgono in effetti al massimo grado la funzione di misconoscimento che si lega al sintomo. Se prendessimo in considerazione solo la funzione economica e dinamica che il sintomo svolge per il soggetto che lo produce iscrivendolo nella propria storia individuale e la sua propria struttura, lasceremmo da parte il suo valore nell’economia dei legami intersoggettivi: non potremmo valutare gli investimenti che il sintomo riceve da parte dei soggetti per tenere Insieme il legame ad un prezzo che ripaga la rimozione mantenuta attraverso l’altro e in ciascuno nella cornice dell’alleanza.
Le posizioni che sostengo possono sovrapporsi a quelle di Pichon-Rivière? Sicuramente se ci si attiene alla descrizione dei fenomeni del legame: in realtà io penso che le nostre ipotesi esplicative siano diversamente orientate. Le mie mirano a rendere intelligibile, a partire dalla questione delle alleanze, la formazione del soggetto dell’inconscio. Come Pichon io penso che noi non possiamo non essere nell’intersoggettività: è la nostra condizione di soggetto, ci formiamo attraverso di essa. Il mio problema è quello di comprendere come ci costituiamo come soggetto dell’inconscio, in rapporto all’altro.
Il soggetto
La concezione di soggetto che Pichon-Rivière propone è essenzialmente psicosociale: essa si inscrive in una problematica che non è fondamentalmente quella della psicoanalisi, poiché l’inconscio che fonderebbe ed organizzerebbe questo soggetto non è in nessun momento basato come tale sugli effetti della soggettività. «Soggetto del bisogno» come lo definisce A. de Quiroga in numerosi lavori, il soggetto è essenzialmente il risultato delle tensioni e delle contraddizioni tra il bisogno nascente dalle esigenze materiali dell’organismo e le qualità dell’ambiente. «L’uomo è un essere di necessità che non possono essere soddisfatte che socialmente nelle relazioni che le determinano», scrive Pichon Rivière.
La nozione di bisogno è centrale nella sua definizione di soggetto: il bisogno è percepito come una tensione interna che sviluppa un comportamento di trasformazione che mira alla soddisfazione. L’azione trasformatrice modifica il contesto dello scambio, essa è apprendimento. Le formulazioni proposte da Pichon in termini di oggetti (interni ed esterni) non modificano lo schema fondamentale: il soggetto è la risultante originale di una relazione di interazione dialettica tra oggetti esterni e oggetti interni. Il soggetto è soggetto dell’azione, situato tra l’assoggettamento al bisogna e il progetto attraverso il quale il mondo esterno potrà essere trasformato: egli è attore.
A. de Quiroga conferma questa concezione scrivendo che il «fare», l’impegno occupano un posto fondamentale nella concezione pichoniana del soggetto e dunque nell’elaborazione di un criterio di sanità in termini di adattamento attivo alla realtà. Ella cita così Pichon (1970): «II soggetto è sano nella misura in cui apprende la realtà in una prospettiva di integrazione, nella misura in cui è capace di trasformare questa realtà trasformando se stesso […]. Il soggetto è attivamene adattato nella misura in cui intrattiene non relazioni rigide passive stereotipate, ma un rapporto dialettico con l’ambiente. La sanità mentale è l’apprendimento della realtà, una relazione che sintetizza e generalizza la risoluzione delle contraddizioni che sopravvengono nella relazione soggetto-mondo».
La realtà di cui parliamo non è qui la realtà psichica così come l’organizzano il desiderio ed i fantasmi inconsci, ma il mondo delle reti relazionali oggettive «da cui il soggetto emerge» e nelle quali sviluppa la sua esperienza e i suoi comportamenti. Si dirà ancora che il soggetto è interazione e sintesi attiva della molteplicità dei legami e dei rapporti di cui è un «emergente»[xiii].
In definitiva la sostanza che definisce il soggetto è data dall’interpenetrazione, nell’esperienza di una relazione con un altro, di due coppie contraddittorie: la coppia bisogno/soddisfazione e la coppia soggetto/contesto sociale del legame. Ritroviamo qui naturalmente la nozione centrale di legame che Pichon (e senza dubbio ancora di più A. de Quiroga) oppone in maniera polemica ad ogni concezione che privilegi l’istintualità e l’innatismo.
L’ipotesi di base sulla quale ho intrapreso le mie ricerche sulla questione del soggetto è che la psicoanalisi freudiana è in grado di sostenere una concezione intersoggettiva del soggetto dell’inconscio. Ho tentato di mettere in rilievo nell’opera di Freud e in particolare in quella che chiama la sua «psicologia sociale»[xiv], le premesse di una concezione intersoggettiva del soggetto dell’inconscio. La psicoanalisi considera l’intersoggettività come una condizione costitutiva della vita psichica umana; questa concezione non può essere opposta all’esigenza che essa si è inizialmente posta e di trattare cioè la vita psichica del soggetto considerato nella sua individualità, a partire soltanto dalle sue determinazioni interne. Il soggetto con cui si rapporta non è il soggetto sociale, ma il soggetto dell’inconscio. Tuttavia – ed è il punto in cui insisto nella mia ricerca da parecchi anni – dobbiamo integrare nel campo della psicoanalisi tutte le conseguenze teorico-metodologiche che derivano dalla considerazione dell’esigenza di lavoro psichico che s’impone alla psiche e specialmente alle formazioni ed ai processi dell’inconscio, la dimensione intersoggettiva dell’oggetto. È proprio questa esigenza che mi ha portato a proporre il concetto di soggetto del gruppo.
La nozione di soggetto del gruppo mi è apparsa necessaria per qualificare certe dimensioni del soggetto dell’inconscio. Penso che il soggetto del gruppo si costituisca come soggetto dell’inconscio secondo due determinazioni convergenti: la prima fa riferimento al suo assoggettamento all’insieme (famiglia, gruppo, istituzione, massa…). Alcune formazioni inconsce si trasmettono attraverso la catena delle generazioni e dei contemporanei; una parte della funzione di rimozione prende appoggio e struttura (nevrotica o psicotica) su certe modalità di trasmissione psichica, per esempio attraverso le modalità fissate dalle alleanze, dai patti e dai contratti inconsci; il processo di incriptamento, la funzione del Super Io e alcune funzioni dell’Ideale dell’Io, seguono ugualmente questa determinazione intersoggettiva.
La seconda dipende dal funzionamento proprio dell’inconscio nello spazio intrapsichico; s’appoggia sui gruppi interni. Ho già sottolineato che questi ultimi non hanno soltanto una formazione e una funzione di incorporazione o di introiezione degli oggetti e dei processi costituiti attraverso i legami inter e transoggettivi e che sono sottoposti dall’identificazione e dall’appoggio ad un lavoro di trasformazione nell’apparato psichico. La loro formazione risulta anche dalle proprietà propriamente gruppali dei pensieri rimossi in quanto separati dalla coscienza e raggruppati tra loro nell’inconscio, esercitano un’attrazione sugli elementi isolati che si separano dal sistema Pcs-Cs.
Il soggetto del gruppo si costituisce come soggetto dell’inconscio secondo due determinazioni: le une attingono alla sua apertura nei confronti dell’esigenza dell’oggetto, generatrice di discontinuità, le altre all’esigenza narcisistica generatrice di continuità.
Il soggetto del gruppo è un soggetto strutturalmente diviso tra la sua realizzazione come individuo e il suo statuto di nodo di congiunzione, beneficiario, servitore ed erede di una catena intersoggettiva alla quale è assoggettato. Questa divisione duplica, conferma o ricompone la divisione del soggetto dell’inconscio, queste parti si accoppiano l’una con l’altra. L’ipotesi della gruppalità psichica aggiunge ancora delle particolarità alla situazione conflittuale del soggetto singolare-plurale. Il soggetto singolare-plurale è simultaneamente multiplo e uno, si forma nell’assemblaggio conflittuale dei suoi oggetti, delle sue pulsioni e dei loro rappresentanti, si dissolve nell’indifferenziazione di un «si» anonimo e desoggettivato, o invece acquisisce la capacità di potersi pensare come ioseparandosene. Il soggetto si costituisce attraverso la negoziazione di questo iato attraverso il compromesso che è capace di creare.
Il concetto di soggetto del gruppo definisce un’area, una dinamica, e un’economia della conflittualità psichica nella quale si scrivono tutte le componenti del conflitto e della divisione propria del soggetto dell’inconscio. Se la conflittualità che lo divide e gli fa cercare dei compromessi è in parte iscritta nell’intersoggettività e nei giochi delle alleanze inconsce, è anche sempre per delle poste in gioco che gli sono proprie che il soggetto dell’inconscio, allo stesso tempo soggetto del gruppo e soggetto della gruppalità psichica è in conflitto, in divisione, in scissione o in compromesso: tra le esigenze che gli impone il movimento che lo spinge ad essere lui stesso il suo proprio fine e quelle che derivano dalla sua struttura e dalla sua funzione di membro di una catena intersoggettiva di cui è insieme il servitore, la catena di trasmissione, l’erede e l’attore. In questa prospettiva ho supposto che la rimozione e il diniego determinati dalle esigenze intrapsichiche si strutturano sulle esigenze di rimozione, di repressione e di diniego che impongono le alleanze, i patti e i contratti inconsci inerenti all’intersoggettività. Attraverso ciò e secondo delle modalità distinte, queste alleanze partecipano alla funzione di rimozione e alla strutturazione dell’inconscio[xv]. L’orientamento generale sarebbe quello di cercare di definire la presenza e la funzione dell’altro o più esattamente di più-di un-altro nella formazione del soggetto.
Il porta-voce e il porta-parola
Un’altra nozione ci è comune: quella che Pichon denomina porta-voce (in spagnolo portavoz) e che io designo con il concetto di porta-parola. Se è vero che entrambi cerchiamo di descrivere un fenomeno specifico del processo e dell’organizzazione gruppale, lo affrontiamo però ancora una volta con delle problematiche differenti.
Per Pichon-Rivière, la nozione di porta-voce è storicamente e concettualmente legata al suo lavoro sul gruppo familiare e alla sua concezione della malattia mentale. La trascrizione letterale di un corso svoltosi nel 1970 alla Scuola di psicologia sociale ci apporta elementi più precisi sulla sua concezione[xvi]: «II porta-voce è colui che nel gruppo, ad un certo momento, dice qualcosa, enuncia qualcosa e questo qualcosa è il segno di un processo gruppale che fino a questo momento è rimasto latente o implicito, come nascosto all’interno della totalità del gruppo. Come segnale ciò che rivela (denuncia) il portavoce deve essere decodificato, bisogna cioè svelarne l’aspetto implicito. In questo modo è decodificato – particolarmente dal conduttore[xvii] – che indica il significato di questo aspetto [implicito]. Il porta-voce non ha coscienza di enunciare qualcosa che ha un significato a livello di quello che si sta sviluppando nel gruppo in quel momento, ma piuttosto enuncia o fa qualcosa che ritiene proprio».
Pichon-Rivière precisa allora ciò che egli considera il suo migliore apporto alla teoria dei gruppi familiari: «II soggetto che si ammala è il portavoce dell’ansietà, delle difficoltà del suo gruppo familiare. In che senso? Il malato, l’alienato è lui, ma la sua malattia, la sua condotta deviante è la risultante dell’interazione familiare, della forma alienante di relazioni che si stabiliscono tra i membri di questo gruppo: è per questo che la malattia di uno di loro emerge come condotta deviante» (op. cit. p. 11). Nello stesso modo, mutatis mutandis, nei gruppi operazionali di apprendimento, «il portavoce è il membro del gruppo che, in ragione della sua storia personale, esprime qualcosa che permette di decifrare il processo latente».
Il suo ruolo è dunque fondamentale poiché rivela gli aspetti latenti del processo, egli è, secondo l’espressione di Pichon, «l’indicatore» (o «intermediario»: alcahuete) egli indica la malattia o la fantasia inconscia del gruppo[xviii]. Pichon-Rivière propone l’immagine della verticalità per definire la storia, le esperienze di un membro del gruppo e l’orizzontalità per designare ciò che, in un dato momento, costituisce «il denominatore comune della situazione, ciò che è condiviso consciamente o inconsciamente da tutti» (ibid. p. 12).
Mi trovo d’accordo con Pichon su molteplici aspetti della sua definizione: come il portavoz di cui parla, io colloco il porta-parola, da un punto di vista topico, nel luogo di articolazione del processo individuale e del processo gruppale; nel loro punto nodale, entrambi svolgono una funzione metaforica o metonimica di rappresentazione. Sono egualmente sensibile alla funzione economica del portavoz e del porta-parola: l’uno e l’altro sono portatori di un carico di cui si libera l’insieme del quale fanno parte.
Tuttavia la mia concezione differisce da quella di Pichon su alcuni punti che mi sembrano importanti. Il fatto che io pensi in termini di porta-parola, là dove egli parla di portavoz, non mi sembra privo disenso. Sono infatti ricorso a questa nozione per portare avanti l’analisi del processo associativo negli insiemi intersoggettivi. Porta-parola è un concetto che serve a trattare la questione della parola: del modo in cui essa è data al soggetto, del modo in cui egli la delega e se ne scarica, del modo in cui ne è preso, ne prende e ne investe i propri desideri, i propri divieti, e la propria rimozione. Il concetto che ho costruito si riferisce così in maniera centrale a una concezione del soggetto dell’inconscio in rapporto alla parola, che innanzitutto, gli viene dall’altro, dall’altro materno e da più di un altro. È in questa prospettiva che ho incontrato il concetto proposto da P. Aulagnier (1975): ho anche insistito più a lungo sulla relazione del soggetto che svolge per proprio conto questa funzione e sulla determinazione intersoggettiva di questa funzione[xix].
Mi sembra inoltre che la concezione di Pichon del portavoz condensi molteplici funzioni che da parte mia ho cercato di distinguere, specificare e raggruppare nel concetto generale di funzione forica. Questa funzione spiega gli aspetti attraverso i quali un soggetto può portare e trasportare per un altro o per un insieme di altri, segni, affetti, oggetti buoni e cattivi, Idee e Ideali che svolgono non soltanto una funzione di indicatore (topico e semiotico) del processo intersoggettivo gruppale, ma anche una funzione economica e dinamica per ciascuno dei soggetti implicati nella realizzazione di questa funzione. È qui in gioco una concezione del soggetto e abbiamo visto che il mio punto di vista differisce da quello di Pichon. Il mio porta-parola, il porta-sintomo o il porta-sogno, non è come il portavoz, la risultante dell’interazione tra i membri del gruppo, perché io non adotto le conseguenze di un postulato interazionista che arriva – come nel caso della prospettiva sistemica – fino a cancellare la soggettività dell’individuo, che non è solo l’indicatore o l’analizzatore delle perturbazioni del gruppo, o il rivelatore del denominatore comune della situazione. Pichon mi sembra troppo vicino alla nozione di paziente designato, anche se egli sostiene che dopotutto è il portavoz che è il malato (e non è la stessa cosa che dire che egli è malato) ed anche se mantiene la dialettica latente/manifesto.
La problematica nella quale si inscrive la posizione e la funzione di porta-parola è per me quella del soggetto del gruppo, in quanto soggetto dell’inconscio. Se ho fatto ricorso al concetto di funzione forica è essenzialmente per rendere intelligibili certi effetti dell’intersoggettività nella formazione e nei processi dell’inconscio: nei meccanismi che lo producono, nelle alleanze, patti e contratti che lo sostengono, ma anche nelle facilitazioni associative che contribuiscono ad aprire le vie del ritorno del rimosso.
La psicologia sociale di Pichon-Rivière
Pichon-Rivière ha svolto il ruolo di pioniere che ha dato il via e nutrito le ricerche portate avanti daisuoi successori in Argentina, in numerosi paesi dell’America latina e nella diaspora conseguente all’esilio di fronte alla dittatura. Certe dimensioni politiche possono far luce sulla sua opera: il suo interesse per la psichiatria sociale, per la formazione degli adulti, la didattica[xx], esprime l’uomo, ilcontesto sociale-politico di questa regione dell’America latina. È indicativo che lo sviluppo del suo pensiero si riferisca progressivamente e prevalentemente alla psicologia sociale, troviamo testimonianza di ciò che scrive nel 1972[xxi] e che ricapitola molto bene le ipotesi della sua ricerca:«La psicologia sociale a cui ci rivolgiamo si inscrive in una critica della vita quotidiana. Chi trattiamo è l’uomo immerso nelle sue relazioni quotidiane. La nostra coscienza di queste relazioni perde il suo carattere banale nella misura in cui lo strumento teorico e la sua metodologia ci permettono di ricercare la genesi dei fatti sociali. Noi condividiamo dunque la linea di pensiero a cui ha dato inizio H. Lefèbvre secondo il quale le scienze sociali trovano la loro realtà nella “profondità senza misteri della vita quotidiana”. La psicologia sociale che noi ipotizziamo ha come oggetto di studio lo sviluppo e la trasformazione di una relazione dialettica che si stabilisce tra la struttura sociale e la fantasia inconscia del soggetto, e che poggia su relazioni fondate sui bisogni del soggetto. In
altre parole si tratta della relazione tra la struttura sociale e la configurazione del mondo interno del soggetto, relazione che è affrontata attraverso la nozione di legame.
Nella nostra concezione Tessere umano è un essere di necessità che non possono che essere soddisfatte che socialmente, nelle relazioni che le determinano. Il soggetto non è soltanto un soggetto in relazione, ma anche un soggetto prodotto in una prassi: non c’è niente in lui che non sia la risultante dell’interazione tra individuo gruppo e classi.
Essendo questa relazione l’oggetto della psicologia sociale, il gruppo costituisce dunque il campo operazionale privilegiato di questa disciplina e ciò in relazione al fatto che permette la ricerca tra lo psicosociale (gruppo interno) ed il sociodinamico (gruppo esterno) attraverso l’osservazione delle forme d’interazione, dei meccanismi attraverso i quali i ruoli vengono aggiudicati ed assunti. Ed è l’analisi delle forme d’interazione che ci permette di formulare le ipotesi sui processi che le determinano.
In quanto disciplina che studia l’interazione secondo questi due aspetti, intersoggettivo (gruppo esterno) e intrasoggettivo (gruppo interno), la psicologia sociale è significativa, direzionale ed operazionale. Essa è orientata verso una prassi da qui il suo carattere strumentale e il suo punto di partenza: la pratica. La concettualizzazione dell’esperienza di questa pratica realizzata con l’aiuto di critica e di autocritica offre la possibilità di feed-back e di correzione della teoria e tutto questo per mezzo di meccanismi di rettificazione e di ratificazione che permettono di raggiungere un’obiettività crescente. Ne risulta un andamento a spirale che permette di elaborare una logica e di costruire una strategia. Servendosi della tattica e della tecnica, questa strategia renderà operative le differenti pianificazioni e ciò affinché il cambiamento sperato, che suppone il pieno sviluppo dell’esistenza umana attraverso la modificazione mutuale dell’uomo e della natura, possa realizzarsi».
Risulta più chiaro attraverso questo testo, come certe parole semanticamente identiche descrivano approcci e concetti molto differenti secondo l’orientamento delle nostre rispettive ricerche. Ma come non essere nuovamente sensibile, al termine di questo breve percorso, al tentativo comune di proporre dei modelli destinati a rendere intelligibile questo problema ancora così oscuro e troppo vagamente formulato: quello dei rapporti che intrattiene il singolo individuo e l’insieme intersoggettivo che egli forma con gli altri e che, in parte, lo costituisce.
Traduzione di Francesco Borgia.
Tratto da Revue de Psychothérapie Psychanalytique de Groupe, n. 23, 1994.
Note:
[ii] Il lettore potrà riportarsi in questo numero della rivista alla “Prefazione” per il suo libro Il processo gruppale. Dalla psicoanalisi alla psicologia sociale.
[iii] Ibid.
[x] Cfr. questo testo nel numero 23, 1994, della Revue de Psychothérapie Psychanalytique de Groupe.
[xx] Le idee ed il modello di gruppo operazionale d’apprendimento di Pichon-Rivière sono state confrontate ed associate al modello pedagogico di Paolo Freire nella cornice delle ricerche sulla «pedagogia degli oppressi». Cfr. P. Freire e A. de Quiroga (dir. Pubi.), El proceso educativo segun Paolo Freire y Enrique Pichon-Rivière, Buenos Aires, Ediciones Cinco, 1985.
[xxi] Pichon-Rivière in collaborazione con A. de Qiroga «Controbutions à la didactique de la psychologie sociale», estratti dell’articolo pubblicato nel numero 23, 1994, della Revue de Psychothérapie psychanalytique de Groupe. Ho fatto alcune citazioni alla fine di quest’articolo.
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* Psicoanalista, professore di psicologia presso l’Università Lumière-Lyon 2, direttore del Centro di ricerca in psicologia e psicopatologia clinica.
[i] El proceso grupal. Del psicoànalisis a la psicologia social (I), poi più tardi, Teoria del vinculo.
[iv] Ibid.
[v] Cfr. il suo articolo Contributions a la didactique de la psychologie sociale nel numero 23, 1994, della Revue de Psychothérapie Psychanalytique de Groupe.
[vi] Anche se alcuni testi si cimentano nella critica dell’innatismo e del determinismo puramente psichico.
[vii] Provo qualche difficoltà a seguire Pichon quando afferma che pensiero e conoscenza non vanno trattati come fatti individuali, ma come produzioni sociali, nelsenso del materialismo storico e dialettico.
[viii] Ho esposto queste ricerche in diverse pubblicazioni, tra le quali la mia tesi di laurea nel 1974, prima di pubblicarle nel 1976, L’appareil psychique grupal. Construction du groupe, Paris, Dunod (trad. it. L’apparato pluripsichico. Costruzioni del gruppo, Armando, Roma, 1983). Dopo queste ricerche iniziali ho tentato di mettere alla prova queste ipotesi nell’analisi dei sogni, delle identificazioni e dei sintomi, nell’analisi della creazione artistica e nell’organizzazione del processo associativo.
[ix] Le groupe et le sujet du groupe, 1993 e La parole et le lien, 1994, Paris, Dunod (trad. it. Il gruppo e il soggetto del gruppo, e La parola e il legame, Borla, Roma, 1994).
[xi] E. Pichon-Rivière, Teoria del vinculo, Buenos Aires, Ediciones Nueva Visiòn, 1980 pp 35-36.
[xii] Op. cit., capitolo 4.
[xiii] Presentando il pensiero di Pichon-Rivière sulla questione del soggetto, Ana de Quiroga scrive che «Nell’interazione di cui la motivazione è fondata da necessità reciproche, ogni soggetto emerge e si costituisce intanto che tale. È unicamente in questo contesto di interrelazione, orizzonte dell’esperienza che il comportamento riveste un significato ed una internazionalità»: 1980, «La formazione dei coordinatori del gruppo alla Scuola di Psicologia Sociale di Buenos Aires. Dr. Enrique Pichon-Rivière», comunicazione al Congresso Internazionale di Psicoterapia di Gruppo, Copenaghen. Vedere anche «La concezione del soggetto nel pensiero di Enrique Pichon-Rivière. Fondamenti di una psicologia definita come sociale», 1978, pp. 421-442. Leggere anche nel numero 23, 1994, della Revue de Psychothérapie Psychanalytique de Groupe, l’articolo del 1985 che riprende e precisa questo testo del 1978.
[xiv] Precisiamo che questa «psicologia sociale» è, per Freud, parte integrante della psicoanalisi; essa mantiene l’ipotesi di inconscio ed inaugura due spazi psichici da articolare, quello di un soggetto in relazione con «più di un altro», quello degli effetti dell’inconscio sul gruppo di «più di un altro». Riguardo a questi sviluppi vedere Le groupe et le sujet du groupe, Paris, Dunod, 1983 (trad. it. Il gruppo e il soggetto del gruppo, Borla, Roma, 1994).
[xv] Ho iniziato ad esaminare questa proposizione a partire dalla funzione di co-rimozione dell’altro, ma anche a partire dalla funzione dell’altro nell’aprire delle strade di ritorno del rimosso. Queste proposizioni formano il filo conduttore delle mie ricerche sul processo associativo nei gruppi. Cfr. La parole et le lìen, Paris, Dunod, 1994 (trad. it. La parola e il legame, Borla, Roma, 1994).
[xvi] E. Pichon-Rivière, 1970, «El concepto de portavoz», Temas de Psicologia Social, 2, 1978, pp. 11-20. Vedere anche l’articolo di R. Jaitin nel numero 23, 1994, della Revue de Psychothérapie psychanalytique de Groupe.
[xvii] Si tratta del conduttore operazionale (R. K.).
[xviii] I teorici francesi di analisi istituzionale parleranno in questo caso di analizzatore (analyseur).
[xix] Queste ricerche sono state illustrate attraverso numerosi casi clinici ne La parole et le lien, Paris, Dunod, 1994 (trad. it. La parola e il legame, Borla, Roma, 1994), la mia teoria del porta-parola ne Le groupe et le sujet du groupe, Paris, Dunod, 1993 (trad. it. Il gruppo e il soggetto del gruppo, Borla, Roma, 1994).