Interazioni,1/2003: 20-28
Roberto Losso (1928-2023)
Psichiatra, Psicoanalista, Membro Ordinario didatta di APA e IPA, Professore di Psichiatria – Università di Buenos Aires, Direttore del Corso di Specializzazione in Psicoanalisi di Famiglia e Coppia – APA e Università CAECE.
Ana Packciarz Losso.
Psicoanalista, Membro Ordinario didatta di APA e IPA, Professoressa Corso di Specializzazione in Psicoanalisi di Famiglia e Coppia – APA e Università CAECE.
Sappiamo che, dentro la nosologia psichiatrica, il termine borderline è uno dei più contestati e indefiniti, e che ha una grande relatività concettuale. Sembra che il termine sia stato introdotto nel 1884 da Hughes, ma nella letteratura psicoanalitica pare che fosse utilizzato per la prima volta da Adolf Stern nel 1938 (Doria Medina, 1992). Da allora si può trovare un grande numero di articoli, libri e presentazioni e gruppi di discussione in congressi sull’argomento, accumulando una enorme quantità di informazione e di criteri, spesso contraddittori. Forse si potrebbe parlare piuttosto di casi di “borderlines” (in plurale) più che di borderline, per così sottolineare la loro condizione di soggetti integranti di un amplio campo pluriforme e polisintomatico, pazienti sicuramente con grande sofferenza, ma che non possiamo classificare né come nevrotici, né come psicotici: a volte appaiono come isterici, altre come ossessivi gravi, fobici, schizoidi, schizofrenici, depressivi, tossicodipendenti, psicopatici, ecc., ecc.
Pensiamo che in questi tempi di tanti tentativi di “medicalizzazione” della psichiatria, e del ritorno, dietro vestiti nuovi, delle vecchie idee organiciste dell’ottocento, questi pazienti ci permettono di riflettere circa la preoccupazione classificatoria di alcune correnti dentro la psichiatria, anche della psichiatria esercitata da molti psicoanalisti. Queste persone ci aiutano a pensare che in una psichiatria psicoanalitica non possiamo parlare di “malattie” allo stile delle malattie della medicina, ma piuttosto di diversi modi come si manifesta la sofferenza degli esseri umani. Vorremmo qui ricordare le idee del maestro di uno di noi, Enrique Pichon Rivière (1978), che partendo dalla più pura tradizione freudiana, e fondamentalmente dalla teoria delle serie complementari, accenna che ogni sofferenza psicologica parte da una situazione di privazione, la quale a sua volta scatena una depressione (non sempre con espressione clinica), conseguenza di una perdita, e che quello che consideriamo “malattie mentali” non è altro che diverse modalità di reazione degli individui, che utilizzano differenti meccanismi di difesa, che si esprimono in una o più delle tre aree di espressione della condotta: l’area 1, la mente, l’area 2, il corpo, e l’area 3 l’azione nel mondo. Sviluppando idee previe di Fairbairn, accenna che i sintomi risultano dalle vicissitudini dei vincoli che il soggetto stabilisce nelle tre aree, per poter così preservare i vincoli “buoni” o protettori, e controllare quelli che vive come persecutori, ma non situa l’origine della necessità di scissione dei vincoli in forze istintive, come Melanie Klein, ma come conseguenza delle esperienze del soggetto. Le esperienze frustranti, se sufficientemente intense e/o precoci, portano ad un sentimento di annientamento, di fronte al quale sorgono le diverse difese. Pichon parla della movibilità delle strutture, vale a dire, le strutture sono strumentali e situazionali in ogni momento, in ogni hic et nunc del processo di interazione e hanno un carattere funzionale, strumentale, situazionale e vincolare.
I pazienti cosiddetti borderline sono quelli che ci mostrano di più questa movibilità delle strutture. Cambiano velocemente le loro manifestazioni sintomatiche, mostrandoci quasi “sperimentalmente” dette movibilità delle strutture, le quali “si adattano” ad ogni situazione nella quale si trovi il soggetto. Ricordiamo anche un’altra feconda idea di Pichon: il soggetto si ammala per l’insicurezza (“per amore e per odio”, diceva, vale a dire per bisogno – e mancanza – di amore e per il conseguente insorgere dell’odio), giacché il gruppo familiare da cui proviene non gli permette di riuscire a raggiungere un’identità. In questi gruppi non c’è discriminazione: non si sa “chi è chi”. Pertanto, il soggetto non è in grado di elaborare la situazione depressiva, il quale lo porta a l’utilizzazione strumentale di tecniche regressive.
Potremmo provvisoriamente dire allora che parliamo di borderline come una sorta di metafora di un ordine spaziale o geografico, per riferirci ad un gruppo di persone con gravi sofferenze, complesse, con grande pluralità sintomatologica, di base predominantemente narcisistica, e che non possono situarsi né come nevrotici, né come psicotici, né come caratteropatici, ma che presentano successivamente comportamenti che corrispondono alle tre “strutture”.
Sono pazienti che “resistono” alla cura psicoanalitica classica. Spesso fanno trasgressioni al setting, sviluppano vincoli trasferali di grande intensità e tendono all’agire, dentro e fuori della situazione analitica, mostrando poca possibilità di riflessione. Hanno scarsa o nulla capacità di tollerare le frustrazioni. Spesso hanno un vissuto di grande solitudine, che può portarli a tentativi di suicidio o addirittura al suicidio riuscito, e in altre occasioni all’utilizzo di alcol o stupefacenti, o episodi di bulimia o anoressia, oppure ad agiti aggressivi e/o erotici, in genere con una alta componente di autodistruttività. In alcuni casi, sopravvengono episodi psicotici, con allucinazioni e deliri più o meno sistematizzati.
Kernberg (1976) (partendo dalla teoria kleiniana) descrisse il disturbo borderline come uno specifico fallimento dello sviluppo dell’Io, caratterizzato da una fissazione in precoci stadi dell’evoluzione nei quali c’è una scissione difensiva tra il “tutto buono” (partendo dalle esperienze soddisfacenti dell’interazione madre-bambino) ed il “tutto cattivo” (derivato dalle esperienze di dolore e frustranti). La difficoltà per riuscire alla sintesi di queste due costellazioni è conseguenza della predominanza di introiezioni negative. Questo porta a difese di scissione e proiezione all’esterno degli aspetti negativi per così poter preservare il rapporto con la madre. La famiglia non è in grado di tollerare gli atteggiamenti aggressivi del bambino. Se la madre reagisce vendicativamente o con allontanamento all’aggressività del bambino, conferma le paure del bambino e la sua sensazione che le sue tendenze aggressive sono forti e pericolose. In altre parole, fallisce la funzione dell’ambiente circostante favorente (Winnicott, 1969). La madre risponde con ansia alle espressione aggressive dell’infans, col conseguente fallimento del bambino per poter evocare la madre “sufficientemente buona”. Come ha detto Winnicott (1968), i genitori devono sopravvivere all’ag- gressività dell’adolescente senza reagire con vendetta o isolamento, il che rafforza la capacità di autonomia del figlio.
Fonagy (2000) formula il concetto di funzione riflessiva o mentalizzazione, che definisce come la capacità di pensare riguardo gli stati mentali in sé ed in altri.
Afferma che la capacità di coscienza riflessiva nella persona con a carico il bambino aumenta la probabilità di una sicurezza nell’attaccamento dello stesso bambino, la quale d’altra parte facilita lo sviluppo della mentalizzazione nel suo psichismo. Un rapporto di attaccamento sicuro offre al bambino la possibilità di esplorare la mente del curatore, e tramite quello, di imparare sulle menti in generale. Questo modello della nascita del sé psicologico è come una sorta di variante del cogito cartesiano, e Fonagy la formula così: “Il mio curatore pensa a me pensando, e dunque io esisto come pensatore”. Fonagy accenna che i soggetti che subirono traumi precoci possono difensivamente inibire la loro capacità di mentalizzare per evitare di pensare riguardo il desiderio del curatore di aggredirli; e che alcune delle caratteristiche dei borderline possono originarsi in una patologia dello sviluppo associata con detta inibizione. Secondo Fonagy, l’effetto terapeutico della psicoanalisi dipende dalla sua possibilità di attivare le capacità del paziente per sviluppare una coscienza degli stati mentali e pertanto, trovare significato nel loro proprio comportamento e in quello degli altri.
In altre parole, possiamo dire che in questi pazienti troviamo un fallimento del funzionamento del preconscio, un “appiattimento” del preconscio. Come preconscio intendiamo “il dispositivo in cui alcuni dei contenuti inconsci subiscono dei processi di trasformazione per ritornare alla coscienza. Questo sistema è legato alla capacità associativa ed interpretativa della psiche… apparato di connessione della pulsione, del significato e del legame” (Kaës, 1996).
La possibilità dell’intersoggettività ha bisogno della presenza del preconscio, e viceversa, la formazione del preconscio ha bisogno dell’intersoggettività. In una famiglia funzionale, c’è un’attività trasformatrice del preconscio in contatto con l’attività psichica preconscia dell’altro, “Un altro (o un insieme di altri) può sviluppare per un soggetto, in certe condizioni, un lavoro di legatura e di trasformazione che per lui è temporaneamente inaccessibile” (Kaës, 1993). È la funzione metapreconscia dell’altro. Questa è la funzione mancante in molte di queste famiglie.
Questi pazienti provocano reazioni controtransferali molto intense, a volte difficili di sopportare dall’analista, a volte paura, a volte rabbia intensa, altre volte noia, altre vissuti fortemente erotici, altre, mancanza di speranze, ecc. (Czertok, Guzzo e Losso, 1993).
A parte altri motivi, queste difficoltà tecniche hanno portato molti analisti a ampliare il contesto terapeutico alla famiglia, il che permise di capire come molti dei contenuti psichici “incomprensibili” o condotte “strane o aberranti” dei pazienti acquistavano significato alla luce della comprensione delle interazioni familiari e come questi pazienti erano l’espressione della sofferenza familiare attraverso i loro sintomi, come una sorta di “portavoce” (Pichon Rivière, 1971) della famiglia. D’altra parte, e, come già aveva segnalato Freud nei suoi classici casi del piccolo Hans e di Dora, allo stesso tempo si servivano dei sintomi per i propri fini.
Nonostante e curiosamente non si trovano nella letteratura molti riferimenti alle famiglie dei borderline, contrastando questo con l’abbondante quantità di libri e articoli riferiti alle famiglie dei psicotici.
Tenteremo qui allora di fare alcuni ulteriori commenti su quali sono alcune delle caratteristiche che troviamo in queste famiglie, oltre quelle già commentate più sopra.
Ma dobbiamo chiarire che in nessun modo sono caratteristiche esclusive delle famiglie dove troviamo un paziente diagnosticato come “borderline”.
Come già avevamo detto, e seguendo Winnicott, diremmo che quello che troviamo come patologia nell’adolescente o nell’adulto è stato originato in un fallimento dell’ambiente, fallimento che ha portato alla minaccia di annientamento, e impedito al futuro soggetto di poter fare un processo “sano“ di identificazione a partire dai vincoli con gli oggetti primordiali.
A partire dalla situazione di hilflosigkeit il bambino ha bisogni, bisogni che sono il fondamento motivazionale di quello che sarà un vincolo. In ogni struttura vincolare il soggetto e l’oggetto agiscono ralimentandosi mutuamente in una relazione dialettica. Nel corso di questo interagire la struttura vincolare viene internalizzata, acquistando una dimensione intrasoggettiva. Ciò che era interpsichico diventa intrapsichico, costi- tuendosi quello che Pichon ha chiamato gruppo interno (modificazione del concetto kleiniano di mondo interno). Il gruppo interno è, all’inizio, fondamentalmente l’internalizzazione dei vincoli familiari: quello che Laing ha chiamato la “famiglia”. Il modo in cui si integra questo gruppo interno condizionerà le caratteristiche dell’apprendimento della realtà, che sarà più o meno facilitato o distorto a seconda che il confronto tra l’intersoggettivo e l’intrasoggettivo sia dialettico o dilemmatico.
Sono stati descritti fallimenti dell’ambiente (Winnicott, 1948, 1960), risposta materna con ansia alle espressione aggressive dell’infans. E conseguente fallimento del bambino per poter evocare la madre “sufficientemente buona”. Zinner e Shapiro (1975) descrissero le interazioni familiari che succedono durante il “secondo periodo di separazione-individuazione”, vale a dire, l’adolescenza. Osservarono particolari patterns di reazione dei genitori di fronte alle richieste sia di autonomia, sia di dipendenza dei figli. Quelle reazioni servono bisogni complementari difensivi nei genitori e funzionano come un’interferenza nello sviluppo dei figli. Questi autori osservarono che spesso le famiglie ricorrevano a una scissione regressiva come risposta a condotte che richiedevano autonomia e separazione da parte dell’adolescente. Affermano che questi genitori negano i loro propri desideri autonomi, proiettandoli sull’adolescente all’interno di una fantasia condivisa: che i desideri di autonomia dei figli rappresenta una condanna ostile verso la famiglia, che vorrebbe distruggere “gli oggetti ‘buoni’ anaclitici”. In altri casi, i bisogni di dipendenza sono percepiti dai genitori come ostili, e allora reagiscono allontanandosi. Questo è dovuto alla necessità di negare i bisogni di dipendenza dei genitori.
In ambedue i casi, i genitori rimangono fortemente legati alle loro famiglie di origine. Le loro esperienze nei confronti dei loro genitori contribuirono ad un’associazione inconscia delle condotte autonome e dipendenti come opposte (autonomia come “buona esperienza” e dipendenza come “cattiva” o viceversa). Allora tendono a proiettare sui figli questa scissione.
Spesso detta scissione appare dentro la coppia: uno di loro si identifica con quello che è “forte e autonomo” e l’altro con quello “teneramente dipendente”.
Le parti rifiutate di ogni genitore sono proiettate nei figli. Il figlio che non è in grado di tollerare l’ansia genitoriale né la propria ansia riguardo la paura di perdere l’amore dei genitori, inconsciamente tenta di modificare la sua esperienza soggettiva d’accordo con le proiezioni difensive dei genitori. L’adolescente rimane inibito dalla percezione condivisa dei genitori nei confronti della sua condotta, che sente ostile. Allora lui (o lei) oscilla tra un completo rifiuto della famiglia e una estrema dipendenza, non concorde con l’età. Questa oscillazione è la manifestazione della scissione difensiva del figlio nelle sue relazioni internalizzate, nel suo gruppo interno.
I genitori sperimentano una ripetizione dei loro conflitti vissuti all’interno delle rispettive famiglie di origine. Pertanto la negazione difensiva da parte dei genitori dei propri bisogni dipendenti, porta ad una inefficienza dell’ambiente circostante.
Quando i bisogni non sono sufficientemente soddisfatti, la conseguenza può essere un sentimento di futilità (Fairbairn, 1952), così frequente in questi pazienti.
In Argentina, Rolla (1979) considera che nelle famiglie dei borderline, la perturbazione principale si stabilisce quando la madre, che non ha consci i suoi aneliti di dipendenza e le sue forme di gratificazione, smette, per circostanze diverse, di dirigerli sul compagno, e invece comincia a spostarli verso il bambino. Il padre reagisce con sentimenti di gelosia riguardo il figlio e sviluppa una tendenza a considerare il bambino come uno strano. A sua volta, la madre si sente abbandonata dal partner, e aumenta le sue richieste di gratificazione al bambino, il quale comincia a funzionare come madre della propria madre. Questo fa sì che il bambino non possa riconoscere i suoi bisogni e che impari ad assumere le attitudini di cui hanno necessità i genitori per riempire i loro bisogni.
Nelle sedute familiari, dice Rolla, la madre si lamenta della mancanza di amore del marito, il quale esprime analoghe lamentele riguardo a lei. La madre commenta allora che il marito ha atteggiamenti aggressivi nei riguardi del figlio, e il marito risponde che la moglie non lo lascia avvicinarsi al figlio, in quanto lei è tutto il tempo col figlio, e anche “dimentica” la sessualità col marito. Ad un certo punto il bambino può cominciare a mostrare condotte che provocano nella madre il bisogno di prenderlo nelle braccia e giocare con lui. Ma in un certo momento il bambino può incominciare a mostrare una sorta di perplessità, e comincia a guardare il padre, che allora può prenderlo con una sorta di atteggiamento automatico. Il bambino oscilla tra ambedue i genitori, i fratelli (se ci sono) e anche il terapeuta, finché comincia a esprimere dispiacere, con espressioni di abbandono e rabbia, con il quale recupera la madre.
Negli adulti, la madre appare nel ricordo, spesso come una persona molto occupata e preoccupata con i figli, e invece il padre, per lavoro, per alcolismo o altri motivi, permane piuttosto lontano dal gruppo familiare. Ma nonostante quello era “un buon uomo” che rispondeva con atteggiamenti e parole che il soggetto ricorda benissimo perché erano “sempre le stesse”, come una sorta di stereotipo.
Il vincolo e le identificazioni. Le identificazioni triviali
Il processo vincolare porta alle identificazioni: a seconda di come si produrranno le identificazioni, si favorirà più o meno la crescita, sviluppo e autonomia degli individui. Le identificazioni normogeniche (García Badaracco, 1985) ammettono la creazione di uno spazio mentale proprio, nel quale si possa sentire e pensare come individuo, permettono che si stabilisca la collusione psicosomatica (Winnicott, 1960) ed anche lo sviluppo di sensazioni di limiti del self corporeo – la creazione di una “pelle psichica” propria (Anzieu, 1986). A partire da quelle identificazioni si costituisce una nuova identità propria e inedita.
L’intergioco dei vincoli dentro la famiglia permette lo sviluppo di un’interdipendenza reciproca sana, generatrice di risorse egoiche (García Badaracco, 1985). Viceversa, in ogni famiglia in cui appare una patologia grave, come nei borderline, troveremo una predominanza di identificazioni “patogeniche”, che sono “alienanti”.
Nei casi dei borderline, troviamo spesso i modelli di identificazione che abbiamo denominato triviali (Losso, 2000). Triviale viene da trivium, intersezione di tre strade romane, ed in senso figurato significava strada conosciuta o molto percorsa. Parliamo pertanto di “triviali” nel senso che sono identificazioni con aspetti “schematici”, ripetuti, conosciuti e perfino caricaturali di personaggi delle fantasie familiari condivise o del mito familiare. Potremmo dire in un certo senso “false identificazioni”, e questo lo vediamo spesso nei borderline. Abbiamo davanti a loro questa sensazione di falsità o meglio, di fragilità delle loro identità. Ci fa ricordare Zelig, il noto personaggio del film di Allen. Molti autori hanno descritto i borderline (o almeno un gruppo di essi) come personalità “come se” (Deutsch, 1942). Winnicott anche ha parlato di uno sviuppo del falso sé, che riesce ad “affogare” il vero sé.
Questo fallimento nello sviluppo del senso di identità, d’altra parte, non è esclusivo del “paziente”. In genere è una caratteristica di queste famiglie, la presenza di un livello di confusione tra i soggetti, portando alla sensazione di non si sa “chi è chi”.
Spesso troviamo che, nell’ambiente familiare di questi pazienti, si sviluppa un’identificazione del bambino con aspetti patologici della madre. In questi casi, Winnicott (1948) afferma che il fatto predominante non è la colpa del soggetto, bensì la difesa organizzata della madre contro la depressione e la colpa inconscia. Sono persone che, quando bambini – accenna Winnicott – “soffrirono una depressione materna”.
Un’altro elemento presente in queste famiglie, è l’alta percentuale di casi di difficoltà per l’elaborazione dei lutti, che “paralizza” la famiglia e “le sottrae vitalità”. Troviamo spesso nelle famiglie sentimenti di mancanza di allegria e di vuoto, che a volte si tenta di riempire con l’ingestione di sostanze diverse.
Troviamo anche situazioni di deleghe abusive inconsce (Losso ed al., 1996), che fanno sì che i soggetti rimangano legati a lealtà invisibili (Boszormenyi-Nagy e Spark, 1973), quello che si può tradurre nel paziente-portavoce come identificazioni triviali.
Consideriamo fondamentale l’inclusione di un approccio familiare nel trattamento di questi pazienti. In alcuni casi, possiamo riuscire a fare una terapia familiare psicoanalitica, in altri arriviamo soltanto a colloqui più o meno frequenti con uno o più dei membri della famiglia, in altri sarà necessaria una terapia di coppia.
In tutti i casi, la terapia dei pazienti borderline e delle loro famiglie offre considerevole difficoltà, dovute principalmente al commentato fallimento delle funzioni del preconscio (o, detto “fonagyanamente”, della funzione riflessiva o mentalizzazione) dei membri della famiglia, con la conseguente tendenza all’agire non solo del “paziente”, ma anche della famiglia, la quale forse non mostrerà agiti così spettacolari come può farlo il borderline, ma non per quello, meno difficili e addirittura pericolosi.
Come vediamo, queste famiglie ci mostrano una predominanza di quello che Laing (1967) ha denominato le difese transpersonali: viene modificata l’esperienza dell’altro per poter conservare il proprio equilibrio psichico.
Abbiamo detto che in queste famiglie, troviamo un fallimento della funzione meta-preconscia dell’altro. È allora questa funzione meta-preconscia quella che deve essere presente e disponibile nell’équipe terapeutica. Nel campo, i membri dell’équipe terapeutica “prestano”, potremmo dire, ai membri della famiglia il proprio preconscio perché questi possano far diventare pensabili i contenuti psichici che fino a quel momento li assillavano, e che erano agiti nel mondo esterno (compreso l’uso delle difese transpersonali), nel proprio corpo o nella propria mente, come elementi scissi o “incistati” (Abraham e Torok, 1987). Detto in un’altro modo, uno degli scopi fondamentali della terapia familiare dei pazienti borderline sarà rendere possibile lo sviluppo del preconscio dei soggetti, oppure seguendo Fonagy, della loro funzione riflessiva o mentalizzazione.
Il bisogno di mantenere “viva” e in azione questa funzione meta-preconscia nel campo è una delle ragioni per l’impiego della coterapia nel trattamento di queste famiglie. Essendo famiglie con predominanza del linguaggio di azione, e dell’uso delle difese transpersonali, tendono a trasferire sui terapeuti le immagini corrispondenti ai personaggi della mitologia familiare, cercando di immischiarli nel mito familiare e attribuirgli il ruolo di uno dei personaggi del mito, inducendoli all’azione, anziché alla riflessione (Losso, 2001). Abbiamo denominato questo processo transfert mitico (Czertok, Guzzo e Losso, 1993). La famiglia tenterà di spostare sui terapeuti gli stessi meccanismi che hanno contribuito a “ammalarla”. Questo può suscitare nei terapeuti vissuti di paralisi, di impotenza, di confusione, di lentezza. Essi possono sentire che hanno “idee pazze”. Provano ed esprimono le emozioni e le ansie che la famiglia teme ed evita. Non è raro che per lo meno a uno di loro sia attribuito il ruolo di paziente designato, diventando così il portavoce (Pichon Rivière, 1971) o porta-sintomo.
I terapeuti, “prigionieri” della famiglia, si sentono portati a convalidare il mito, ma nello stesso tempo sono di fronte al “paziente designato” il quale denuncia, a modo suo, il carattere difensivo del mito familiare. I terapisti si sentono presi “tra due fuochi”: da una parte la famiglia gli chiede di essere d’accordo con essa e convalidare il mito con cui ha, bene o male, convissuto da anni; e d ́altra parte, il paziente designato, gli chiede di denunciarlo, benché contemporaneamente lo conferma con la sua condotta “pazza”, anzi difendendolo con energia, nonostante i suoi effetti distruttivi.
È questo campo conflittuale che porta i terapeuti a rieditare certi vicissitudini del processo di separazione riguardo il proprio mito familiare. Dette vicissitudini si tradurranno per una maggiore o minore capacità di collusione terapeuti-famiglia. Abbiamo parlato di valenze collusive per riferirci a questi processi che rendono gli analisti vulnerabili e possono portarli ad un tale legame di dipendenza verso dette famiglie, che arrivano a situazioni in cui hanno bisogno della famiglia come sostegno narcisistico (Czertok, Guzzo e Losso, 1993). Questo fa sì che occorra la presenza del coterapeuta che può “riscattare” (quando sia necessario) il collega dall’induzione transpersonale, permettendogli così di recuperare il suo ruolo analitico.
Questo implica anche la necessità di un permanente analisi del campo controtransferale (o intertransferale – Kaës, 1998), vale a dire dei transfert reciproci tra i coterapeuti, indotti spesso dalla famiglia.
Note
*In italiano il termine triviale viene inteso non solo come volgare, ma anche grossolano, scurrile. In spagnolo lo si usa di più nel senso di volgare, semplice, senza niente di nuovo, per questo, ed anche in base all’etimologia, ho deciso di conservare tale denominazione
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