Interazioni, 1999/2: 19-26
André Ciavaldini.
Dottore in psicopatologia clinica (HDR), psicoanalista (SPP, IPA), membro dell’ARTAAS e della SFTFP, direttore della ricerca presso il laboratorio di psicologia clinica e psicopatologia dell’Università Paris-Descartes.
André Ruffiot ( 1927-2010).
Psicoanalista presso la Società psicoanalitica di Parigi, ha diretto il Laboratorio di Psicologia Clinica e Patologia presso l’Università di Grenoble. Membro fondatore della Società di terapia familiare psicoanalitica dell’Ile de France (STFPIF); Membro fondatore e poi membro onorario della Società Francese di Terapia Familiare Psicoanalitica (SFTFP).
In base alla nostra esperienza clinica pensiamo che la prima consultazione non debba essere considerata una tecnica rigida ma, prima di tutto, un modo di domandare di cui ciascuno deve appropriarsi, deve adattare ad ogni nuovo incontro con la famiglia e deve far evolvere, così come evolvono le nostre rappresentazioni teoriche del funzionamento psichico familiare. Questa prima consultazione sarà dunque sostenuta, retta da questa finzione teorica necessaria, che in parte ne costituirà la struttura: congruente ad essa, le sarà isomorfa.
E vista la quantità di domande che solleva, è necessario periodicamente darle uno spazio di riflessione. Ve ne propongo alcune.
Insisterò poco in questa sede sugli elementi tecnici, ad esempio sulla griglia di consultazione, se ne trovano eccellenti contributi nelle opere classiche di A. Ruffiot, J.-P. Caillot e G. Decherf, o di A. Eiguer; metterò invece l’accento sulle qualità necessarie a rendere terapeutica la prima consultazione.
1. Questione preliminare: esiste una prima consultazione?
Le riflessioni preliminari che seguono ci sono state suggerite dalla doppia appartenenza professionale di uno di noi, che in parte interviene in veste di psicologo presso un centro psichiatrico diurno per adulti, dove la sua funzione è essenzialmente quella di coordinamento istituzionale con le équipe medico-sociali. In questo contesto, non eser- cita volontariamente alcuna pratica di terapia individuale con i pazienti di questo centro, che, tuttavia, incontra regolarmente insieme all’équipe, in occasione di riunioni ben strutturate.
L’altro suo spazio di intervento è il PARI, che significa: Psicoterapie, Applicazioni e Ricerche Intersettoriali. È il primo – e forse l’unico – dipartimento del Servizio pubblico ospedaliero francese di psicoterapia psicoanalitica (aperto dal 1981) del CHS di Saint-Egrève. Tutti e nove i terapeuti che vi operano hanno una formazione psicoanalitica riconosciuta dall’istituzione. In questo spazio vengono offerte solo consultazioni psicoterapeutiche (e non si garantiscono consultazioni mediche o sociali). È un dipartimento aperto a tutti i servizi dei settori ospedalieri (Ciavaldini, Cohen, 1988).
La presenza di terapeuti con questa formazione e l’utilizzo di un modello di gestione e responsabilità collegiale (non dipendente da altri servizi), ci consente di assicurare l’insieme dei trattamenti psicoterapici di tipo analitico, tra i quali, naturalmente, la terapia familiare analitica1, nelle condizioni ottimali di affidabilità – nel senso winnicottiano del termine – (durata, permanenza, non-intrusione, predicibilità).
Questa doppia appartenenza ha suscitato, in A. Ruffiot e in me stesso, alcune domande riguardanti la prima consultazione. Succedeva spesso, infatti, nell’ambito del centro diurno, di ricevere famiglie di pazienti, soprattutto psicotici. Si trattava, con
loro, di fare il punto sullo stato del paziente e sul vissuto familiare. Questi incontri strutturati miravano a sensibilizzare le famiglie riguardo al proprio funzionamento psichico. Succedeva così che talvolta, dopo un periodo di tempo variabile che poteva essere di diversi mesi, spesso di diversi anni (due o tre anni), diventava possibile pro- porre ad esse di intraprendere una terapia familiare, per esempio. È così che la prima consultazione porterà inevitabilmente traccia degli incontri passati. Ma non è forse sempre così?
Riflettendoci bene, prima di arrivare dall’analista terapeuta familiare, a Parigi, a Grenoble o altrove (e i nostri scritti ne portano testimonianza), la grande maggioranza delle famiglie ha già fatto un proprio percorso.
Tenendo conto di tutti coloro che incontrano famiglie (assistenti sociali, educatori, direttori di un centro, medici di base, interni di servizi, psicologi, ecc.) si possono in effetti enumerare tante prime consultazioni che precedono la prima… E tutte queste prime consultazioni hanno giustamente il loro peso sulla prima consultazione, oggetto di questo articolo. Quest’ultima porterà inevitabilmente traccia delle precedenti.
Esiste quindi una consultazione che sia veramente la prima?
Questa prima volta, intesa come la primissima volta, è forse un mito. Eppure esiste, dato che la incontriamo regolarmente. È una prima volta alla quale ciascuno arriva con la sua storia: innanzitutto la famiglia con la storia delle sue esperienze passate, dei suoi incontri, dei suoi marchi, e poi i terapeuti con la loro storia, quella del loro gruppo, ma anche quella del loro incontro, con gli interrogativi sulla propria famiglia. Questione nient’affatto trascurabile, dato che conosciamo l’importanza degli effetti controtransferali sulle indicazioni terapeutiche e sulla prognosi.
C’è un prima che lascia delle tracce, incontri che hanno permesso delle mobilitazioni (la famiglia si è rivolta a noi), ma che talvolta ha anche operato delle mutilazioni.
La domanda alla quale io cercherò di dare un abbozzo di risposta è la seguente: esiste un atteggiamento di base da tenere in qualsiasi tipo di incontro con una famiglia, che possa catalizzare un modo di porsi terapeutico?
2. Il tempo della prima consultazione
Questi preliminari ci permettono già di concepire questa prima consultazione come integrata in un processo temporale molto più ampio. Essa contrassegna sia un momento nuovo, anche se la famiglia viene una sola volta, sia una tappa lungo la traiettoria storica familiare. Dà inizio ad un processo che sarà necessariamente lungo. Il nostro lavoro consisterà quindi nel rendere questa tappa un agente terapeutico ed è questo lo scopo principale di questa prima consultazione. Per le famiglie che non sono disposte ad intraprendere una TFA, tale qualità terapeutica si manifesterà solo molto più tardi, quando il trattamento sarà avviato, talvolta molti anni dopo l’indicazione.
Questo ci mostra chiaramente come anche questa consultazione lascerà delle tracce, che ritroveremo nel decorso della terapia, nel caso in cui venga avviata. Consultazione portatrice quindi di un avvenire. A. Eiguer, del resto, ha proposto di paragonarla ad “un modello ridotto” della cura familiare (Eiguer, 1987 p. 176); diciamo che essa contiene in se stessa la forma del processo a venire.
3. La prima consultazione: una consultazione terapeutica
Come consentire al processo che si mette in moto di essere terapeutico, e che cosa significa questo termine per un gruppo di terapeuti che si propongono di fare luce, in- dipendentemente da ciò che già sanno della famiglia, sul funzionamento psichico fa- miliare, o magari sulla sua disfunzione? Ritorniamo a formulare la nostra domanda: esiste un atteggiamento terapeutico di base proprio al gruppo dei terapeuti, così come nella cura individuale l’analista si pone in un atteggiamento di neutralità benevola?
3.1. La formulazione della diagnosi
Consultazione terapeutica significa comunque che, per poter dare una valutazione sul funzionamento psichico della famiglia, bisogna esplorare alcuni parametri di base. Si tratterà dunque di una diagnosi centrata sulla gruppalità psichica familiare piuttosto che sulla specifica organizzazione di ciascuno che, in ogni caso, si manifesta nella dinamica interpersonale e intra-familiare.
3.1.1. Ascoltare la gruppalità
Sarà dunque necessario un ascolto gruppale: la famiglia parla attraverso molte bocche, che insieme danno vita ad un unico discorso, quello che rivela il funzionamento di un apparato psichico familiare. “L’interazione” fra i membri deve essere intesa unicamente come il manifestarsi di un continuum psichico in funzione. L’ascolto gruppale presuppone due punti focali: da una parte ciò che succede “qui ed ora” in quanto fotografia, momento privilegiato della dinamica psichica familiare, e dall’altra il processo storico che ha condotto la famiglia fino a questo momento in cui lo spazio psichico familiare sarà percepito nella durata della consultazione. L’asse generativo incontra quello della filiazione. La sincronia si innesta sulla diacronia. Noi pensiamo che la funzione di questo ascolto gruppale è quella di contenere il discorso familiare. Anche se frammentato, spezzettato, isolato, si troverà comunque riassemblato in questo involucro di ascolto che forma, in qualche modo, una camera d’eco capace di permettere la risonanza fantasmatica inconscia (per riprendere i termini di Foulkes e di Ezriel) e generare l’interfantasmatizzazione.
3.1.2. Permettere il riconoscimento.
Ascoltare una famiglia presuppone, tuttavia, che la si riconosca come tale mentre sta parlando. È questo uno degli obiettivi della consultazione: i terapeuti, dopo essersi presentati, identificheranno la famiglia, cioè la riconosceranno. Usiamo di proposito il termine riconoscimento che, più di conoscenza, implica il significato di identità, identificazione.
In effetti la famiglia, oltre ad essere ciò che avviene durante la terapia, è anche ciò che dice di essere. È dunque importante che ciascuno si identifichi, in un certo modo, indicando il suo posto rispetto agli altri membri. Facendo questo, essi si distinguono nella filiazione (incontro tra i due assi sopra citati).
Non bisogna esitare nel porre domande, per sapere chi fa cosa dentro la famiglia o all’esterno: piaceri, dispiaceri, tristezza, gioia, collera, aggressività, gelosia, sistema di potere devono essere esplorati, così come le attività di base familiari: il mangiare, il dormire, il sognare nonché la pulizia. A ciò verranno ad aggiungersi lo studio delle relazioni con l’esterno, la rete sociale di relazioni della famiglia e l’osservazione diretta, per tutta la durata della consultazione, del clima familiare, di chi dice cosa, e del sistema degli atteggiamenti di ciascuno e degli affetti, della loro congruenza con l’espressione verbale.
Questo sistema di identificazione familiare pone le sue basi sulla situazione sperimentale rappresentata dalla terapia, che è parte integrante del contesto. Fin dall’inizio, la famiglia è “in un rapporto di opposizione strutturante con il gruppo di non- familiari” (Kaës, 1986, p. 12), rappresentato dal gruppo dei terapeuti.
È questo sostegno-contro che rinforzerà la coesione interna della famiglia e permetterà il progressivo delinearsi di identificazioni individuanti attraverso il definirsi da parte di ciascuno.
3.1.3. Cogliere la domanda.
Quest’ascolto, nella cornice dell’incontro con un gruppo di non familiari, permetterà alla famiglia di esprimere la sua domanda su invito dei terapeuti.
In effetti, la risposta deve essere congrua alla domanda altrimenti, per riprendere l’espressione di Maurice Blanchot, “la risposta è la disgrazia della domanda”. Dare una risposta congruente da parte dei terapeuti non significa esaurire, concludere la domanda, ma al contrario inserirla in una prospettiva. Nessuna domanda è monolitica; le domande sono tutte costituite da strati sovrapposti e questi strati sono diversi a seconda di ogni famiglia. Tranne forse alcuni: citiamo, per esempio, il “fate qualche cosa per noi”, strato superficiale, corrispondente a quello più profondo, ma anche più arcaico, di voler essere sollevati dalla propria sofferenza riversandola al di fuori.
Tale congruenza presuppone che la risposta terapeutica sia flessibile, non conduca cioè necessariamente ad una TFA, ma possa variare da una risposta operativa di ospedalizzazione a quella di una o più terapie individuali. La qualità della risposta dovrà riflettere quella della domanda.
3.2. Gli indicatori diagnostici del funzionamento psichico familiare
La risposta terapeutica necessita di una valutazione diagnostica del funzionamento psichico familiare, che deve essere la diagnosi di una gruppalità psichica e non la somma di diagnosi individuali.
Gli indicatori di questo tipo di diagnosi si applicano alla famiglia e non ai singoli individui che la compongono, anche se ogni individuo incarna, in un dato momento, uno dei versanti del funzionamento psichico familiare. Ve ne proponiamo una serie, non esaustiva.
3.2.1. Qualità dei sintomi prevalenti del paziente portatore di sintomi e degli altri membri, analisi dei disturbi somatici di ogni ordine, la loro frequenza e il loro ordine di comparsa.
3.2.2. I diversi tipi di angoscia e la loro sinergia, in modo da individuare i meccanismi di difesa utilizzati per proteggersene. Citiamo la bella descrizione, divenuta ormai classica, di J.-P. Caillot e G. Decherf (1989), che si basa sui lavori di F. Pasche, della difesa per oscillazione contro le angosce catastrofiche di fusione o di disgregazione che conduce alla posizione narcisistica paradossale, che comporta una vera embolizzazione della psiche familiare simile ad una morte psichica.
Accanto a queste angosce agoniche, troviamo le angosce di abbandono e di separazione, in modo particolare nelle famiglie di tipo anaclitico, in cui si incontra specificamente la patologia di tipo asmatico-allergico. Aggiungiamo anche l’angoscia di castrazione, benché raramente riscontrata nelle consultazioni familiari, perché caratteristica delle famiglie ad organizzazione nevrotica, a priori controindicate per la TFA.
3.2.3. Fra i meccanismi di difesa, che F. Aubertel (1984) ha egregiamente esaminato, citiamo in particolare i sistemi di diniego. Diniego della differenza tra i sessi, tra le generazioni, tra i corpi individuali, certamente, ma anche diniego della differenza tra esseri viventi e non-viventi, degli spazi psichici differenziati e della temporalità, per citarne solo i più importanti. Accanto ad essi troviamo le proiezioni e le identificazioni proiettive, le seduzioni, fra le quali quelle narcisistiche, ben individuate da P.-C. Racamier, così come le idealizzazioni. Questi meccanismi di difesa si sviluppano in modo particolare nel corso della seduta. Sarà dunque importante porre attenzione al potenziale di lavoro di elaborazione psichica familiare. In effetti, l’incontro con un gruppo di non familiari mette la famiglia di fronte ad una eccitazione di cui essa dovrà farsi carico durante la seduta, e quindi elaborare.
3.2.4. Le relazioni oggettuali intra ed extrafamiliari forniscono un valido riscontro dell’impiego libidico, così come la posizione di ciascuno nella famiglia, e della famiglia rispetto all’ambiente esterno.
3.2.5. L’individuazione dei miti e degli ideali permette, con la loro incidenza difensiva, di porre la famiglia lungo l’asse di filiazione del passato/presente per i miti e la loro pregnanza organizzativa, ma anche del presente/futuro per gli ideali: che cosa diventerà ciascuno nell’avvenire familiare? Oltre l’accesso che essi permettono al narcisismo familiare, segnalano anche un altro versante dell’impiego libidico: la capacità di elaborare o meno il passato, per proiettarsi o meno nel futuro, entrambi aspetti importanti ai fini della prognosi.
3.2.6. La qualità funzionale dell’onirismo familiare: questo è uno dei punti più importanti perché, al di là del fatto che la famiglia sogni o meno, ci dobbiamo chiedere qual è la qualità elaborativa del lavoro del sogno2. Tale riscontro ci offre preziose indicazioni sulla qualità della interfantasmatizzazione. L’onirismo, in quanto luogo della comunicabilità sincretica familiare, è lo spazio del familiare primario, sfondo della fantasmatica familiare, dal quale emergerà a poco a poco la rêverie individuale e individuante (Ruffiot et coll., 1981).
Con questa panoramica abbiamo cercato di riassumere gli indicatori-chiave che permettono una valutazione del funzionamento psichico familiare.
4. L’indicazione
Una volta fatta questa valutazione, i terapeuti potranno sia considerare la pertinenza o meno dell’indicazione di un trattamento lungo e impegnativo come la TFA, sia il loro margine di manovra.
Secondo una buona logica clinica, dovremmo prendere in considerazione la nozione di prognosi.
Ce ne riserviamo la discussione in questa sede, tenuto conto delle grandi difficoltà che essa comporta, per l’importanza stessa del controtransfert. In effetti, nessuno psicoanalista terapeuta della famiglia si è mai sottoposto, nel corso della sua formazione, ad una propria terapia familiare; da cui l’estrema importanza del gruppo dei terapeuti e dello scambio post-consultazione su ciò che potremmo chiamare l’inter-contro transfert, o almeno l’inter-contro-atteggiamento. È lo scambio delle reazioni e dei vissuti di ciascuno dei terapeuti e della loro dinamica all’interno del gruppo che sarà rivelatore di un controtransfert.
Di regola, la TFA è indicata per quelle famiglie in cui almeno un membro presenti una grave disfunzione a livello del preconscio.
- Si tratta innanzitutto delle famiglie con sintomatologia psicotica, nelle quali si assiste (P.-C. Racamier) ad un sovvertimento dei processi secondari da parte di quelli primari. È in queste famiglie che si riscontrano i dinieghi maggiori della differenza tra i sessi, tra le generazioni, così come le angosce agoniche catastrofiche.
- Le famiglie con sintomatologia psicosomatica, di cui l’insieme delle patologie di base, che “presentano un tipo di comunicazione inconscia basata su ‘identificazioni adesive’, ricostruiscono un ‘pelle a pelle’ psichico attraverso un discorso che Isola i corpi individuali”.
- Le famiglie di anoressici, che traducono una psiche senza frontiere, una tendenza a funzionare secondo psiche pura, con un diniego inconscio dei corpi individuali (Ruffiot et coll., 1981 pp. 59-60).
- Le famiglie con sintomatologia psicopatica e tossicomanica.
- Le famiglie a funzionamento nevrotico non rientrano nell’ambito di questo trattamento. Tuttavia, di fronte ad alcuni aspetti specifici di organizzazioni familiari, tra cui il fallimento di un trattamento individuale (Ibid., p. 60), esse possono rientrare in una TFA.
5. La censura terapeutica primaria
Vi abbiamo presentato quelli che vengono chiamati gli elementi tecnici della gri- glia di consultazione. Tuttavia, in una consultazione strutturata della durata di un’ora, tenuto conto della raccolta dei dati, il colloquio necessariamente intrusivo, dovrà essere contenitivo. Innanzitutto nella gestione delle difese, ma anche nella forma stessa della consultazione, in cui sarà necessario inquadrare bene la famiglia.
Quest’ultima chiede diritto d’asilo per la propria sofferenza, che possa migrare all’interno del contenitore terapeutico, con lo scopo di essere trasformata. Ciò presuppone che la sofferenza non sarà destrutturante, cioè fonte di eccitazione troppo intensa, capace di sovvertire le funzioni limitanti della cornice di pensiero dei terapeuti, così come è avvenuto per le capacità di pensiero della famiglia.
La nostra ipotesi è che la famiglia, nell’ambito del suo transfert iniziale matriciale, faccia implicitamente appello, per riprendere il termine di R. Kaës, alla funzione contenitiva dei terapeuti, quella di trattenere, di evitare il crollo, sempre imminente, provocato dal peso della sofferenza. Sarà dunque necessario arginare il flusso delle parole impiegate per esprimere la sofferenza che, in questo tipo di famiglie, corrisponde all’emergere di vissuti agonici e di terrori innominabili, e di evitare così l’esaurimento delle forze di contro-investimento. Esaurimento delle forze psichiche familiari che riduce i loro scambi a quelli autoconservativi, conferendo loro una netta colorazione operatoria. Lasciare che la famiglia si esprima per libero discorso, e non per libere associazioni (situazione indotta da una regola), significherebbe spingerla a confrontarsi con ciò contro cui essa spende tanta energia per difendersi.
È dunque necessario che i terapeuti funzionino come un filtro para-eccitatorio efficace, attraverso un ascolto neutro, vigile ma fermo e strutturante, che costituisca proprio per questo un contenitore affidabile, spazio di contenimento per la sofferenza familiare, che non possa essere sovvertito da quest’ultima.
È questo atteggiamento terapeutico, preesistente alla venuta della famiglia, che noi chiamiamo “la censura terapeutica primaria”. È proprio questa che permette la tra- sformazione della regressione patologica in regressione terapeutica, poiché senza rischio di emorragia libidica.
Conclusioni
Nel corso di questa rapida presentazione del lavoro della prima consultazione, abbiamo voluto evidenziare le qualità che essa deve possedere per rendere terapeutica la valutazione, malgrado le inevitabili questioni tecniche enunciate.
Ma tutta questa lista di indicatori così necessaria, tutta questa raccolta di informazioni, tutti questi elementi fattuali della storia familiare acquistano importanza solo all’interno della rete dinamica che vanno ad esemplificare. Hanno valore solo in rapporto ad essa, e nello stesso tempo le imprimono nuove costrizioni.
È su questo aspetto dinamico che il gruppo dei terapeuti deve focalizzare l’attenzione.
Il senso di per sé di questo o di quell’elemento, evento, ha minore importanza rispetto alla configurazione formale della rete nella quale è inserito in quanto prodotto e produttore di effetti. Tale dinamica rende forse necessario che venga formalizzata una vera e propria topica della psiche familiare.
Ma individuare questa dinamica presuppone un luogo in cui possano manifestarsi, essendo contenute, tutte le forze presenti, e il lavoro dei terapeuti consiste proprio nel permettere il costituirsi di questo spazio.
Così l’involucro di ascolto permetterà il raggruppamento di elementi della psiche familiare. La situazione terapeutica (sitting-cadre) con questo incontro di un gruppo di non-familiari e il riconoscimento della famiglia rinforzerà la coesione interna di quest’ultima, operando una rassicurazione narcisistica per la famiglia, che si trova tra un isomorfismo presente e un abbozzo di omomorfismo a venire. La forma stessa del colloquio rifletterà la volontà dei terapeuti di non forzare l’involucro familiare, neanche fosse quello della sofferenza.
Ci sembra che tutti questi elementi si fondino sulla censura terapeutica primaria con questa dimensione anale organizzante, di cui P. Luquet mette in risalto l’importanza a livello preconscio. È questa dimensione che induce una prima differenziazione nel cuore stesso della regressione prodotta dal transfert matriciale iniziale, per evitare, parafrasando P. Marty, che divenga essenziale, nel senso di una dispersione senza compensazione dell’energia libidica familiare. Possiamo riassumere tutto questo in una formula lapidaria: “la regressione sì, la dispersione (rappresentativa) no” (Ruffiot, Ciavaldini, 1989).
È questa censura terapeutica primaria che fonda ogni incontro con le famiglie e che rappresenta un atteggiamento di base su cui poggia il valore terapeutico della con- sultazione.
Bibliografia
-
- Andre F. (1986), L’enfant insuffisamment bon, PUL, Lyon, p. 246.
- Aubertel F. (1984), Les méccanismes de défense familiaux, Université Grenoble II, Thèse de Ille Cycle (non publiée).
- Caillot J.-P., Decherf G. (1982), Thérapie familiale psychanalytique ed parado-xalité, Clancier-Guénaud, Paris, p. 232.
- Ciavaldini A., Cohen S. (1988), “Un PARI thérapeutique”, Synapse, 48, pp. 65- 73.
- Eiguer A. (1983), Un divan pour la famille, Le Centurion, Paris, p. 223.
- Eiguer A. (1987), La parenté fantasmatique, Dunod, Paris, p. 222.
- Kaës R. (1986), Prefazione, in Andre F., 1986, L’enfant insuffisamment bon, PUL, Lyon, p. 246.
- Ruffiot et col. (1981), Le groupe-famille en analyse, in La thérapie familiale psychanalytique, Dunod, Paris, pp. 1-98.
- Ruffiot A., Ciavaldini A. (1989), “La question du transfert en thérapie familiale psychanalytique”, Gruppo, 5, pp. 75-84 - Traduzione di Alessandra Raineri - Tratto da Gruppo, 6, 1990.
-