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Transfert e controtransfert

David E. Scharff, Jill Savege Scharff

Interazioni, 2/1999:63-81

Il lavoro con il transfert e con il controtransfert è caratteristico della terapia familiare delle relazioni oggettuali. Le teorie analitiche delle relazioni oggettuali e dei gruppi ci permettono di cogliere una visuale più ampia sul transfert. Il transfert si realizza tra i membri della famiglia, tra ogni membro della famiglia e il terapeuta, e tra la famiglia come gruppo e il terapeuta. Noi lavoriamo con il transfert ogni volta che questo si manifesta, ma la nostra attenzione più costante è rivolta alla relazione famiglia-terapeuta, che è definita dal transfert condiviso dal gruppo familiare nel suo insieme su di noi, e che noi rileviamo attraverso il riconoscimento delle nostre risposte controtransferali, che includono emozioni, fantasie, pensieri e comportamenti. Descriviamo in dettaglio il nostro modo di procedere e di esaminare il controtransfert nel setting clinico perché riteniamo essenziale comunicare la tecnica affinché gli studenti possano apprendere il nostro approccio e per dimostrare la validità delle nostre ipotesi riguardo all’esperienza con la famiglia. Pensiamo che questo studio possa anche essere utile agli studenti della terapia familiare strategica e strutturale nei loro tentativi di apprendere l’abilità di “lavorare con la persona del terapeuta” (Aponte e VanDeusen 1981).

Cominciamo con una panoramica storica sullo sviluppo dei concetti di transfert e controtransfert nel setting analitico individuale. Vogliamo mostrare come la teoria delle relazioni oggettuali abbia ampliato i primi concetti di Freud. Vedremo poi come queste esperienze permettono lo sviluppo nel terapeuta di una versione del mondo oggettuale interno del paziente che corrisponda a quella che il paziente stesso ha della sua propria famiglia. Da ciò procederemo a mostrare l’applicazione delle nostre conoscenze sul transfert e controtransfert nel lavoro psicoanalitico con le famiglie.

Il concetto di transfert: Freud

Il concetto di transfert fu introdotto da Freud nel 1895 e modificato nel corso degli anni. Egli aveva osservato, all’inizio, che i pazienti erano inclini ad operare false connessioni tra idee e sentimenti per difendersi dalla consapevolezza di ricordi legati a situazioni reali che li avevano sconvolti. In modo simile, essi potevano operare una falsa connessione tra i loro sentimenti ed il medico, quando la reale connessione sarebbe stata tra questi sentimenti e persone significative del passato. Freud chiamò queste false connessioni transfert sull’investigatore psicoanalitico. Portò esempi di donne che iniziavano a resistere al trattamento a causa del transfert su di lui di sentimenti proibiti originariamente legati a persone del passato. Notò anche che alcuni pazienti erano spaventati all’idea di poter essere influenzati e di divenire dipendenti dal medico che li stava curando, a quel tempo con l’ipnosi e con una forma rudimentale di analisi. Pensò che questi transfert dovessero essere interpretati come resistenze ad accettare il trattamento.

Dieci anni dopo, Freud (1905b) descrisse due tipi di transfert. Nel primo tipo, il paziente presentava un facsimile degli impulsi originari repressi, che indirizzava immutati verso il medico come diretto sostituto. Nell’altro tipo, attraverso il processo di sublimazione, il paziente presentava modifiche più “ingegnosamente costruite” di impulsi repressi che Freud chiamava “edizioni rivisitate”. Queste potrebbero anche diventare consce “avvantaggiandosi abilmente di alcune reali peculiarità della persona del medico o del suo ambiente ed appoggiandosi ad esse”. Questi transfert, accompagnamento ricorrente ed inevitabile della situazione psicoanalitica, dovevano essere individuati e disinnestati attraverso l’interpretazione che li ricollegava alle antiche origini. In altre parole, il transfert era ora visto come una ripetizione che attraverso l’interpretazione doveva essere convertita in ricordi, per liberare così il processo psicoanalitico.

Nel 1985, Freud aveva considerato il transfert come un ostacolo. Dal 1905, definì il transfert come “il più potente alleato” della psicoanalisi. Egli si era convinto che “solo dopo che la traslazione era stata risolta, un paziente arrivava ad un senso di convinzione della validità delle connessioni costruite durante l’analisi” (1905b).

Dodici anni dopo, Freud (1917a) si rese conto che queste manifestazioni di transfert diventavano più frequenti e impellenti finché l’originale situazione psichica veniva ripetuta esclusivamente con l’analista. Chiamò questo sviluppo nevrosi di traslazione. Poiché tale processo coinvolgeva così totalmente l’analista, egli ebbe poi tutto il tempo per approfondirlo. Ma in questo momento egli voleva interpretarlo non nella speranza di liberarsene, ma piuttosto per scoprirne la vera natura ed arrivare a ricostruire la sua connessione con l’esperienza passata. Lo sviluppo degli scritti di Freud sul transfert segue la linea di sviluppo del transfert in un’analisi.

Sebbene del tutto consapevole dell’importanza delle prime relazioni, e squisitamente consapevole della relazione del paziente con lui, Freud (1905a) rimase fedele alla teoria della libido. Mise molta attenzione nel riferirsi al transfert non come alla ripetizione di una relazione, ma come alla ripetizione di un’esperienza psicologica del passato riferita alla persona del medico: il medico è semplicemente il luogo attuale per la distribuzione della libido, o energia sessuale, del paziente (1917b). Freud (1912) riconobbe che il transfert positivo promuoveva la relazione psicoanalitica e, dato che ciò favoriva il trattamento, non richiedeva nessuna interpretazione. Tuttavia, il transfert erotico-amoroso, o come dovremmo dire, un eccesso di transfert positivo, così come di transfert negativo, aumentava la resistenza del paziente all’emergere dell’edizione originale del conflitto basato sulle prime esperienze (1915).

Poiché nella protetta situazione analitica non era necessaria una nuova rimozione, il transfert poteva essere affrontato. L’analista doveva aiutare il paziente a comprendere la sua resistenza inconscia ad affrontare la realtà sotto il dominio del principio del piacere e a fare i conti con l’autorità del medico nel lavoro analitico.

Transfert: teoria delle relazioni oggettuali

Ricorriamo ora alla teoria delle relazioni oggettuali per estendere questo concetto di transfert alla ripetizione nella relazione terapeutica delle prime relazioni e delle relazioni ancora più primarie con oggetti parziali. Noi pensiamo al transfert come alla riattualizzazione delle modalità di attaccamento, influenzate dalle vicissitudini di dipendenza infantile e dalle emozioni primarie, sessuali e aggressive. La situazione analitica favorisce l’evocazione di tale transfert grazie all’astinenza dell’analista. L’astinenza è un principio fondamentale secondo cui il bisogno e il desiderio del paziente non debbono essere appagati perché costituiscono forze attive che spingono il paziente a lavorare e a produrre cambiamenti. Noi dobbiamo fare attenzione a non appagare queste forze attraverso surrogati (Freud 1915).

Utilizzando la base teorica della relazione d’oggetto, possiamo ora pensare all’astinenza come a qualcosa che produce una “fame d’oggetto” nel paziente. L’intensità e la chiarezza del transfert sono dovute in gran parte al fatto che il setting analitico richiede una distanza tra paziente e analista tale che il paziente è spinto a muoversi verso l’analista per realizzare un attaccamento.

Poiché l’analista rimane più o meno ad una distanza costante, il paziente è spinto ad uscire dal suo ripiegamento. Ciò potrebbe essere visto come una manipolazione, in realtà la distanza tra paziente ed analista costituisce la condizione necessaria per portare allo scoperto il mondo interno, per dargli uno spazio di respiro psicologico nel quale sbocciare, poter essere portato di nuovo in vita e riesaminato.

Quando questo succede, si tratta di rivivere antichi eventi che appartengono a periodi diversi dello sviluppo, di cui i più importanti, o almeno i più difficili da rivivere, sono quelli degli anni prescolari. Ma essi riemergono nel presente, e l’appropriatezza o inappropriatezza delle risposte del paziente può essere osservata non solo dall’analista, ma, cosa più importante, dal paziente stesso; il paziente può quindi osservare quali eventi della vita attuale tendono ad innescare antiche risposte – risposte che investono l’analista come se questi fosse, in quel momento, uno degli oggetti interiorizzati.

I diversi membri della Scuola Inglese delle Relazioni Oggettuali condivisero la convinzione che la relazione con il terapeuta stia al centro del lavoro analitico. Di conseguenza, nella tradizione dell’empirismo inglese, la teoria si sviluppò a partire dal loro lavoro sulla relazione tra paziente e terapeuta. Guntrip (1969), uno degli ultimi teorici di questa scuola, scrisse:

“Se lo sviluppo ed il mantenimento dell’Io è sempre più visto come un processo psicodinamico fondamentale, e un Io può svilupparsi solo in un ambiente di relazioni d’oggetto, ne segue che la psicoterapia ad ogni livello, ma particolarmente al livello più profondo, può costituirsi solo come una relazione terapeutica tra persone… più noi ci preoccupiamo della ‘persona’ e meno del ‘sintomo’, più la relazione personale diventa dominante nell’intera situazione terapeutica”.

Tutto ciò ci spinge a considerare il transfert non come fenomeno isolato proprio del paziente, ma come fenomeno che appartiene alla relazione con il terapeuta, relazione osservabile quindi in un preciso contesto e ambiente culturale.

Siamo d’accordo con Bird (1972) che il transfert che si costituisce nella relazione terapeutica sia unico, ma come lui, anche noi siamo portati verso “l’idea ancora inesplorata che il transfert sia una funzione mentale universale che può anche essere la base di tutte le relazioni umane”. Noi facciamo un passo oltre per dire che il secondo tipo di transfert opera anche tra i membri di una famiglia, dove ogni relazione presente si basa sulla stratificazione delle esperienze, fino agli stadi più precoci dello sviluppo in cui la percezione, la cognizione e la gestione degli affetti erano più primitive. Questi tipi di transfert spingono a relazionarsi con persone che hanno tendenze relazionali simili o complementari, sia che si tratti di gruppi di estranei (Bion 1961) o di gruppi familiari.

Resistenza al ritorno di relazioni oggettuali cattive rimosse

Freud (1926) definì la resistenza come un derivato della rimozione delle pulsioni inconsce dell’Es da parte dell’Io – l’istanza conscia ed operativa della mente. Freud descrisse inoltre le resistenze dovute al transfert e al guadagno secondario della malattia, entrambe ugualmente resistenze dell’Io. A queste aggiunse la resistenza dell’Es e la resistenza del Super-Io (originata dal bisogno di punizione per espiare la colpa) che bloccano la riuscita e la guarigione. Tali concetti di resistenza sono utili, ma non sufficienti per il lavoro con le famiglie.

Fairbairn (1952) si è occupato del funzionamento del Sé che, per la necessità di liberarsi di modalità di relazione troppo dolorose per essere tollerate dall’Io, crea aree del Sé fondamentalmente scisse e represse. La resistenza ora diventa differente: è la riluttanza a dare consapevolezza ad una relazione dolorosa. Guntrip (1961) aggiunse, come logica conseguenza, che la resistenza opera affinché la sofferenza delle esperienze precedenti non venga introdotta nell’attuale situazione terapeutica. È la relazione terapeutica che veicola la resistenza nella terapia; come egli chiarì: “La mia personale esperienza non mi lascia alcun dubbio… è la parte adulta del paziente che sente come troppo disturbante e umiliante ritornare a un’esperienza di se stesso a un livello infantile nella relazione con un altro adulto”.

La resistenza allora è la difficoltà che i pazienti provano nel rivelare a se stessi le proprie parti difficili e sofferenti e a sperimentarle nella relazione con noi. All’inizio identificano il terapeuta con i loro oggetti interni critici e per noi è molto difficile mostrar loro le parti del Sé che non approvano. Con il procedere del trattamento il paziente, utilizzando la nostra accettazione nei suoi confronti, aumenta sia in fiducia che in tolleranza verso di sé. Ciò significa che il paziente passa da un’identificazione proiettiva, nella quale il terapeuta è sentito come un oggetto antilibidico, a un’identificazione introiettiva, nella quale l’oggetto antilibidico è compreso e quindi il paziente ha meno bisogno di essere severo e critico verso di sé.

La signorina Harvey, trentatreenne al suo terzo anno di analisi, grafica, iniziò una nuova relazione con un uomo una settimana dopo a un tentativo di suicidio. Riferisce che tutto ora va bene. Quando l’analista suggerisce che forse la nuova relazione e la velocità del suo inizio potevano avere funzioni difensive, ovvero proteggerla dalla paura di sentirsi così tanto dipendente da lui proprio ora che lui stava per andare in vacanza, lei divenne furibonda e gli disse che lui non capiva assolutamente nulla. Egli era proprio come tutto il resto del mondo. La prova di ciò stava nel fatto che altre persone le stavano dicendo la stessa cosa. Le domande sulle origini antiche della sua rabbia furono fermamente rifiutate. Lei gli disse di stare zitto: non aveva nessuna importanza che lui capisse o no. Quando si alzò dal divano alla fine della seduta, si sistemò i capelli e disse: “Mi dispiace di essere una tale strega. Io so che devo fare così, ma mi dispiace che lei debba sopportarlo!”. Il giorno dopo disse: “Non è facile da dire. Appena ho preso l’auto ho capito che lei aveva ragione. Penso di essermi infuriata a causa delle sue prossime vacanze. Lei è mio padre che mi abbandona, ed io non ce la faccio a doverla lasciare mentre ho così bisogno di lei. E non sopporto di dirle questo. Voglio dire che posso adesso, ma non è ancora facile”.

Il transfert e la resistenza quindi possono essere considerati fenomeni interpersonali che derivano da relazioni oggettuali internalizzate che si ricreano nella relazione terapeutica.

Il controtransfert

Il controtranfert ha avuto poca attenzione negli scritti di Freud, forse perché, come suggerisce Strachey (1958), egli non voleva che i pazienti sapessero troppo riguardo alla sua tecnica. Nel 1910, Freud descrisse il controtransfert come l’insieme delle reazioni inconsce dell’analista in relazione al paziente. Mise poi in guardia contro un vissuto controtransferale originato dal fascino esercitato dall’analista sul paziente, fascino che determina nel paziente lo sviluppo transferale di sentimenti d’amore infantile. Freud (1915) vide il controtransfert principalmente come un vissuto di tentazioni a cui l’analista deve saper resistere. Freud (1910, 1912, 1937) mantenne questo punto di vista, e cioè che il controtransfert derivi dalla resistenza dell’analista all’emergere – in sé – di complessi infantili inconsci, e che il rimedio fosse l’auto-analisi o il training analitico. Agli inizi della tecnica psicoanalitica e in un gruppo significativo di analisti moderni, il controtransfert continuò ad essere considerato come il riflesso delle difficoltà dell’analista nel gestire i suoi conflitti non risolti, evocati dal paziente. Per esempio, Greenson, nel suo testo fondamentale sulla tecnica psicoanalitica scrisse: “Il controtransfert è la reazione transferale dell’analista verso il paziente, una reazione parallela al transfert, una controparte del transfert… le reazioni controtransferali possono portare ad atteggiamenti inappropriati e persistenti nei confronti del paziente, sotto forma di costanti incomprensioni, di comportamenti poco gratificanti, di comportamenti inconsapevoli di natura seduttiva o permissiva” (Greenson 1967).

In questa linea del pensiero psicoanalitico, il controtrasfert è stato visto essenzialmente come la rappresentazione dei problemi transferali dell’analista nel setting. Tower (1956) sostenne che “il controtransfert va riservato per indicare il transfert dell’analista nella situazione di trattamento – e niente altro”. Per lei il controtransfert è un normale modo di essere nella relazione con il paziente, ma se diventa anormale quanto a intensità, può interferire con il progresso dell’analisi.

Il gruppo Inglese, tuttavia, diede al concetto di controtransfert un significato più sofisticato, basato sullo studio delle risposte dell’analista intese come la registrazione interna delle proiezioni del paziente su di lui. Questa evoluzione si basa sulle teorie della proiezione (Klein 1936) e dell’identificazione proiettiva (Klein 1946), studiate approfonditamente da Melanie Klein e dal suo gruppo (Segal 1964). Loro ipotizzarono un passaggio da una situazione in cui prevalgono la scissione e la proiezione di pulsioni (di natura libidica e aggressiva in relazione all’oggetto primario), a modi di relazione più organizzati. Studiarono anche le vicissitudini della scissione dell’immagine materna in più parti; la scissione della madre reale in “madre buona” o “madre cattiva” messa in atto dal bambino che inizialmente non può elaborare il concetto di una madre intera che sia entrambe le cose contemporaneamente. Fairbairn (1952) immaginò l’organizzazione mentale del bambino come un “mettere dentro” l’esperienza con la madre, con una modalità che lo protegge dalla relazione con l’oggetto cattivo e che mantiene l’ordine. Il gruppo kleiniano ha approfondito la possibilità di utilizzare l’esperienza dell’analista come lo strumento fondamentale per la comprensione del paziente. I contributi di Winnicott (1971) e Guntrip (1969) in Inghilterra e Searles (1979, 1986) negli Stati Uniti sono stati in questo campo assai importanti e si sono rivelati capaci di attrarre un pubblico più ampio di quanto abbia saputo fare il primo linguaggio della Klein.

Il lavoro di Heinrich Racker

La formulazione teorica più chiara del controtransfert, direttamente ereditata da M. Klein, è quella di Heinrich Racker, analista kleiniano argentino. Nel suo scritto del 1957 “I significati e gli usi del controtransfert”, descrisse un chiaro insieme di transazioni implicate nel controtransfert. Le sue idee ci portano in un’area molto utile nella prospettiva della terapia familiare. Racker iniziò, come altri prima di lui, discutendo i diversi contributi al controtransfert, sia quelli derivati dagli studi sulla proiezione sia quelli centrati sulle difficoltà dell’analista. Di questi ultimi contributi esplicitamente disse che rappresentano non il controtransfert vero e proprio, ma i transfert del terapeuta sul paziente.

E introdusse un’idea completamente nuova. Disse che il controtransfert rappresenta una condizione fondamentale per la ricezione delle proiezioni del paziente, che vengono organizzate in identificazioni proiettive. Questo può succedere solo senza la consapevolezza del terapeuta. Egli deve essere disponibile a ricevere queste identificazioni proiettive, a permettere loro di subentrare, quindi a diventarne consapevole, e ad elaborarne l’esperienza. Solo in questo modo il paziente può esperire di essere stato profondamente capito. Bloccare questa esperienza significa lasciare che il paziente si senta zittito e trattato meccanicamente, a distanza. In questa formulazione, la capacità di essere disponibile a ricevere questi transfert (termine che possiamo usare qui in modo intercambiabile con quello di identificazioni proiettive) significa che il terapeuta dovrebbe necessariamente lavorare con il controtransfert inteso come mezzo fondamentale di comprensione del mondo interno del paziente.

Racker esaminò poi le diverse origini di queste identificazioni proiettive all’interno del mondo oggettuale del paziente. Queste esistono perché la condizione interna del paziente è, come abbiamo detto, fondamentalmente scissa secondo diverse modalità. La scissione fondamentale è quella tra il Sé e l’oggetto, ma ci sono scissioni tra varie parti dell’esperienza con l’oggetto, che dipendono dal tipo di sofferenza sperimentata.

Identificazioni concordanti e complementari

La formulazione più importante di Racker per questo nostro lavoro è quella secondo cui il terapeuta potrebbe sentirsi identificato con due parti dell’esperienza del paziente, sia con una parte del Sé sia con una parte dell’oggetto del paziente. Se sentiamo da una paziente con la quale abbiamo un’alleanza ragionevolmente buona che suo marito la sera prima era ubriaco e minacciò di percuoterla, possiamo provare rabbia per suo conto nei confronti del marito e paura per il suo benessere. Racker ha definito questa identificazione con il Sé del paziente identificazione concordante.

Se, d’altra parte, questa paziente nel corso della seduta diventa leggermente offensiva con le parole e ci accusa di percuoterla con le nostre interpretazioni, o di imporle cose senza curarci se queste la sconvolgono, possiamo sentirci attaccati ed identificarci con i suoi oggetti quando lei è scontentata e si arrabbia con loro. Racker ha chiamato questa identificazione con gli oggetti del paziente identificazione complementare.

Ora ci diventa possibile pensare alle origini del controtransfert in modo più complesso. Molti dei contributi clinici di Searles, Winnicott e altri ci hanno aiutato. Per esempio, nella situazione in cui noi ci sentiamo trattati come l’oggetto della paziente, presumibilmente la paziente sta portando una parte di se stessa. Tuttavia, quando noi ci sentiamo trattati come una parte di lei stessa, allora dobbiamo pensare a quale persona della sua vita oggettuale lei stia portando nel transfert, in modo da poterle dire: “Io mi sento trattato da te adesso come tu ti sei sentita trattata da tuo padre, forse per farmi capire come sia stato per te, e forse per evitare la possibilità che io possa diventare offensivo verso di te”. Se non rimaniamo fermi alle parole, che introducono un livello di sofisticatezza ma che non sono importanti in sé, allora possiamo usare il contributo di Racker per spingerci verso la posizione generale secondo cui il nostro ruolo nella vita del paziente diventa un ruolo complesso con cui riceviamo ed assorbiamo proiezioni mutevoli del Sé e dell’oggetto. La comprensione e la chiarificazione delle condizioni in cui differenti immagini ci sono state trasmesse, costituisce il lavoro della terapia.

Lo sviluppo della “capacità negativa”

Per tener conto di quanto detto finora, possiamo dire che nel corso del tempo, in una terapia sufficientemente comprensiva, il terapeuta dovrebbe essere capace di esperire di nuovo l’esperienza familiare del paziente in crescita. E dal momento che questo viene fatto in una situazione di scambio emotivo a due, il terapeuta e il paziente possono costruire una convinzione condivisa nel tempo sulla validità emotiva di questa stessa esperienza. Il linguaggio usato tra paziente e terapeuta, ed invero il modo in cui il terapeuta pensa a ciò che sta succedendo, non hanno bisogno e non dovrebbero essere intrisi di terminologia tecnica o di tentativi di imbrigliare l’esperienza in qualche griglia teorica. Il terapeuta deve piuttosto porsi in una posizione ricettiva per creare uno spazio tra sé e il paziente e un corrispondente spazio all’interno di sé che possa essere colmato con l’esperienza che deriva dal mondo oggettuale del paziente. Per guadagnare questa posizione, il terapeuta ha bisogno di sviluppare una qualità personale di “capacità negativa” (negative capability). Questo termine, usato per la prima volta dal poeta Keats per descrivere una qualità del carattere poetico di Shakespeare, viene definito come la capacità di “stare nelle incertezze, nei misteri, nei dubbi, senza nessuna irritabilità dopo fatti e ragioni” (Murray 1955). L’idea è stata ripresa da Bion e utilizzata nel suo insegnamento. Noi abbiamo imparato come relazionarci al concetto direttamente da Arthur Hyatt Williams alla Tavistock Clinic nel 1973. Ciò che Williams intendeva era la capacità di tollerare di “non conoscere”, e di sospendere il bisogno di conoscere per un tempo sufficiente da lasciar emergere il significato di un’esperienza dall’interno dell’esperienza stessa. Quando siamo capaci di fare questo con successo, l’esperienza controtransferale ci dice, alla fine, ogni cosa ci serva sapere sulla nostra relazione con il paziente, e con una profondità che non possiamo ottenere se imponiamo la teoria come modalità di comprensione. La “capacità negativa” è un esempio di come le relazioni oggettuali siano un metodo di lavoro piuttosto che una teoria.

Transfert e controtransfert contestuale nel trattamento individuale

Come terapeuti noi costruiamo la maggior parte della situazione di holding terapeutico quando creiamo al nostro interno lo spazio per lo sviluppo della capacità negativa. Questo spazio, insieme con la predisposizione della situazione terapeutica, forma la situazione di holding nella terapia individuale. All’interno di questo contesto di holding, il paziente individuale ha un transfert verso la stessa situazione di holding. In questo transfert, il paziente porta aspettative verso la situazione terapeutica basate sui modelli interni dell’holding avuto con le figure primarie. Noi chiamiamo questo transfert contestuale. Il terapeuta ha una risposta alla modalità del paziente di utilizzare l’ambiente terapeutico da lui predisposto. Noi chiamiamo ciò controtransfert contestuale. Nella terapia individuale e nell’analisi, la prima relazione con il terapeuta non coinvolge ancora il processo di compenetrazione profonda dei mondi oggettuali. Piuttosto, il paziente si aspetta che il terapeuta predisponga un contesto per un certo tipo di lavoro, che può o non può corrispondere a ciò che il terapeuta si aspetta di offrire. I primi transfert sono verso la predisposizione del terapeuta di un tale spazio di lavoro, paragonabile all’adeguatezza dell’holding parentale che sostiene la crescita del bambino. Nei termini della prima situazione madre-bambino, il transfert contestuale corrisponde alla risposta del bambino al fatto di essere tra le braccia della madre, alle sue qualità fisiche e alle attività che costituiscono l’involucro all’interno del quale si sviluppa la relazione centrale, “sguardo nello sguardo”. Nella psicoterapia individuale settimanale, il transfert verso gli aspetti di holding “tra le braccia” del terapeuta è preminente, e molto del controtransfert sarà generato su questo punto. Questo è anche il transfert che organizza in misura maggiore la lunga prima fase della psicoanalisi, prima della cristallizzazione della nevrosi di traslazione. Una volta riconosciuto che il transfert contestuale è quello più strettamente connesso all’affettività del paziente all’inizio del lavoro analitico, siamo in una posizione migliore per comprendere le sue vicissitudini e per lavorare con esso considerandolo un materiale diverso dal transfert più focalizzato che caratterizza le fasi successive della psicoterapia o della psicoanalisi.

Esempi dal trattamento individuale

Una donna chiamò per chiedere una consultazione, ma volle sapere prima se lo studio fosse annesso all’abitazione. Aveva avuto un precedente terapeuta il cui studio era all’interno della casa, ciò l’aveva esposta dolorosamente alla ricchezza della vita familiare del terapeuta, e sentiva che non sarebbe riuscita a tollerarlo di nuovo. Quando le venne detto che lo studio era all’interno della casa del terapeuta, chiese il nome di un altro analista.

In questo esempio, il transfert contestuale predisposto verso la situazione di holding della terapia, impedì un inizio. Il transfert contestuale si rivela anche successivamente nella terapia.

Una donna che era stata in analisi per due anni fece brevemente cenno al fatto che occasionalmente lasciava ancora dormire la sua giovane figlia nel letto con lei e il marito. L’analista, a conoscenza di questo fatto, aveva sentito per tutto questo tempo che tale argomento non poteva ancora essere affrontato analiticamente. Per la paziente affrontare la questione implicava l’accettazione e comprensione di sé come persona, e quindi la capacità del terapeuta di contenerla contestualmente così come aveva sentito che sua madre non aveva potuto fare. In questa occasione, l’analista, senza saperlo, stava provando irritazione nei confronti della paziente: lei stava discutendo della sua ambivalenza riguardo alla continuazione dell’analisi. Egli fece una puntuale richiesta sulle sistemazioni notturne e ottenne la risposta che aveva previsto per tutto questo tempo – che lei non lo considerava affidabile. La paziente disse di aver pensato che lui avesse accettato la giudiziosità delle sistemazioni del sonno adottate in famiglia, e ora si sentiva ingannata.

Sebbene l’intervento dell’analista possa essere letto come rappresentativo di diversi tipi di controtransfert, il più importante sembra essere legato al fatto che la paziente ha trasformato l’analista nella sua madre critica. Ma questo è stato fatto in modo tale che ciò che è stato messo in discussione è stata la modalità con cui il biasimo della madre – ha costituito per il terapeuta – la prova che la madre non era stata capace di contenerla in modo sicuro. Si può pensare che ciò, a sua volta, è stato evocato in un momento dell’analisi in cui la paziente era lì lì per tentare di utilizzare l’analista in un modo più mirato. Questo a lei sembrò così rischioso che mise in discussione la capacità di holding e l’affidabilità dell’analista nel transfert contestuale. Il suo controtransfert a ciò non riuscì in prima istanza ad affrontare la prova, ma fornì intensamente informazioni sulle sue paure riguardo al fallimento dell’ambiente di holding.

Transfert e controtransfert focalizzato nel trattamento individuale

Altri aspetti del transfert derivano dall’esperienza personale della relazione centrata sul genitore, costruita sulla relazione del bambino con la madre nella fase precoce di comunicazione essenzialmente “psico-somatica”. Nel prosieguo della terapia individuale emergono questi aspetti del transfert, quando il paziente proietta parti degli oggetti interni sul terapeuta. Chiamiamo questo transfert focalizzato. Il terapeuta riceve ed è investito da questo transfert attraverso il processo dell’identificazione proiettiva. Il transfert focalizzato a volte può essere rivelato da una lettura a livello intellettuale delle relazioni oggettuali che il paziente stabilisce con gli altri significativi. Ma la sua forma è compresa più squisitamente quando se ne fa esperienza nel controtrasfert, dove c’è una ricostruzione del sistema oggettuale interno del paziente nella relazione terapeutica presente; da questo momento la relazione controtransferale è capace di contenere il tipo di relazione “centrata” che il paziente-bambino ha sperimentato con la madre nelle fasi precoci dello sviluppo. Chiamiamo questo controtransfert focalizzato.

Abbiamo cercato di differenziare con attenzione il transfert contestuale da quello focalizzato, ma dobbiamo ora ricordarci che c’è una sovrapposizione. Così, come il bambino sperimenta relazioni centrate all’interno del contesto di holding predisposto dalla madre, così la sua esperienza della madre – “al centro” – è connessa con la sua esperienza della madre-ambiente. Il riesperire l’una si collega all’altra, e c’è un aspetto dell’holding che deriva dall’immediatezza della relazione centrata e che contribuisce alla solidità dell’holding contestuale. Così, c’è un movimento avanti e indietro tra questi aspetti della relazione e tra questi due aspetti del transfert. Nella normalità c’è una congruenza tra due immagini ideali trasferite. Nella patologia ci può essere una congruenza tra le due immagini, che non sono ideali, oppure ci può essere dissociazione di una dall’altra per proteggere almeno un aspetto della relazione. In entrambi i casi il terapeuta si prende carico di questi due aspetti, che sono più o meno differenziati dall’interpretazione del paziente dell’esperienza primaria e che sono ulteriormente differenziati nella relazione terapeutica, a seconda del tipo di trattamento e della fase. Abbiamo ritenuto utile in pratica distinguere i due tipi di controtransfert riferendoci ad essi con un linguaggio stenografico, usando termini corporei. Quello contestuale è il controtransfert “tra le braccia”, laddove quello focalizzato è il controtransfert “sguardo nello sguardo”. Questo linguaggio corre il rischio di semplificazione, così dobbiamo ricordare che non deve essere preso alla lettera, ma piuttosto come immagini visive che aiutano a fissare le idee e che ad un certo punto l’uno può dissolversi nell’altro, poiché ogni esperienza è differenziata dall’altra, ma, allo stesso tempo, la contiene.

Un esempio dalla psicoanalisi

Questo ci conduce ad un esempio di lavoro con il transfert e il controtransfert focalizzati. Non è possibile tuttavia discutere di essi senza includere il transfert ed il controtransfert contestuali che li contengono. Questo esempio si sviluppa a partire da una descrizione di transfert della signorina Harvey, di cui già abbiamo parlato più sopra.

Alcune settimane dopo la seduta sopra riportata, la signorina Harvey iniziò la seduta dicendo: “Oggi sono troppo stanca per parlare. Sono stata in piedi tutta la notte per la scadenza di un progetto, e se vuole che faccia qualcosa qui, deve farmi delle domande. Lo sa che io non concordo con il modo con cui cerca di farmi parlare”.

Poiché questo era un motivo ricorrente nel lavoro con lei, l’analista si sentì un po’ infastidito, con un vissuto di “ci risiamo”, ma reagì al suo proprio desiderio di essere anche d’aiuto, e formulò una domanda in cui le chiedeva quali pensieri lei avesse sul fatto di essere oggetto di domande.

“Non è la domanda giusta, stupido!” lei disse. “Le ho detto e ridetto che se vuole che io parli di qualche cosa, deve chiedermi cose precise”. E iniziò a parlare con foga e a sbraitare, giungendo in fine a raccontare di una situazione di lavoro in cui il suo capo aveva convocato una riunione dello staff. Quando fu interpellata sui suoi progetti, lei si era sentita muta e incapace di parlare. Era così infuriata con il capo per “l’interrogatorio” che avrebbe voluto essere capace di urlargli indietro le sue domande.

L’analista realizzò di essersi sentito lui stesso torchiato e turbato nella prima parte dell’ora e che la signorina Harvey era molto più arrabbiata di quanto non fosse mai stata pri- ma nell’analisi. Questa associazione lo aiutò a capire che egli sentiva di essere trattato come la paziente sentiva di essere stata trattata, e ora si rese conto che spesso si sentiva “aggredito” da lei in questo modo. Ciò sfociava in contese in cui si sentiva spinto in una sorta di scontro con questa paziente e in cui si era sentito polemico e insoddisfatto del proprio modo di lavora- re. Avrebbe voluto stare in silenzio per alcuni momenti, solo perché la paziente dovesse dire: “Dov’è finito? Ho bisogno che risponda a una domanda. Cosa pensa di quel che ho appena detto?”. Il suo sentirsi “insoddisfatto del proprio modo di lavorare” sembrava connesso ora con il modo in cui si era sentito infastidito e zittito dalla paziente. Egli fece un altro tentativo, utilizzando la sua sensazione di essere infastidito e l’interiore insoddisfazione che gliene era derivata.

Chiese: “Quando non rispondo nel modo giusto alle sue domande, come quale persona del suo passato le sembra che io mi stia comportando?”.

Questa volta lei rispose. “Lei si comporta come me! E io mi sto comportando come tutti gli altri: mia sorella, mia madre, gli insegnanti che ho odiato da ragazza, il mio ex-marito. Io non combattevo mai. Quando mi facevano delle domande, e io rimanevo confusa, stavo in silenzio. Dicevo a me stessa che la cosa da fare era non accettare lo scontro. Ma volevo urlare”.

“Vede, gliel’ho già detto prima, ma glielo dico di nuovo. Lei sa che mia madre era solita farmi sedere su una sedia e cercava di insegnarmi a leggere. E mi urlava, se leggevo male delle parole. Diceva: ‘Non stai tirando fuori le tue potenzialità. Non arriverai mai a niente se vai avanti in questo modo”. E strillava contro di me. Avevo 5 anni, per amor di Dio! Io rimanevo silenziosa, e lei gridava: ‘Non sederti là! Parla meglio o altrimenti!’ E io avrei voluto urlare a lei, giusto per mostrarle cosa si prova – cosa lei mi stava facendo”.

L’analista ora si sentiva sollevato. La paziente aveva cominciato a mostrare una parte sofferente del suo mondo interno, ed egli non si sentiva più preso dal vissuto familiare nel lavo- ro con la signorina Harvey, di diventare qualcuno che lui sentiva come una parte estranea e spiacevole di se stesso, la vittima di quel fastidio che lo rendeva polemico e silenzioso.

Nella stessa seduta la paziente parlò ancora della sua nuova relazione amorosa, nella quale si sentiva fiduciosa e innamorata come non era mai stata prima. Era così diversa dal suo matrimonio. Riuscì a mettere in relazione il suo attacco all’analista con la sensazione che egli non avesse fiducia nella sua nuova relazione. Notò che ora era pronta ad ammettere che se egli avesse pensato che le sue precedenti relazioni amorose non erano state mature, avrebbe avuto ragione, ma che prima di ora lei non aveva abbastanza fiducia in lui per ammetterlo. Infatti lei avrebbe continuato a insistere nel dire che i suoi amori erano maturi, pur sapendo che se l’analista la vedeva con questi uomini avrebbe avuto giustamente dei dubbi. “Non le avrei mai potuto dire tutto ciò prima. Lo sa, solo con lei posso gridare queste cose perché ora mi fido di lei. Non mi sono mai fidata abbastanza di nessuno, da poter urlare loro quanto fossi arrabbiata o sconvolta. Ma adesso posso anche raccontarle di questa nuova relazione. Io apprezzo che mi abbia costretto a continuare questa sera, anche se ero stanca. È stato un ‘pungolo’ che mi ha permesso di continuare la seduta”.

La parola “pungolo” risuonò nell’analista, egli capì che si era sentito di assumere quel ruolo, con l’implicazione di punire, stuzzicare, provocare la paziente, con una modalità pseudo-fallica. Ora, grazie all’aiuto della paziente, era più chiaro.

 

In questo esempio l’analista rimase a lungo identificato con la paziente, perseguitata da un oggetto materno critico. Quando la sua domanda interpretativa condusse la paziente a riconoscere questa proiezione su di lui, il senso delle domande di lui poté essere compreso come quel “pungolo” che la paziente aveva allo stesso modo sperimentato con la madre. Con questa elaborazione da parte della paziente, l’analista si sentì liberato dalla identificazione proiettiva, ovvero transfert focalizzato, e dall’oggetto persecutorio che aveva assunto un parziale controllo su di lui e poté ritornare ad essere un buon oggetto per la paziente. Ciò è potuto succedere nel momento in cui lei si fidò abbastanza dell’analista da potergli parlare della sua nuova relazione, nel momento stesso in cui riconobbe la precedente mancanza di fiducia che era stata l’elemento antilibidico del transfert contestuale, dall’inizio dell’analisi. In molte delle sedute nelle quali si era sentito a disagio per il comportamento suo e della paziente, l’analista aveva dovuto tollerare di “non capire” da dove venisse questa sensazione al fine di permettere alla paziente di lavorarci su per scoprirlo. Ciò non significa che egli non avesse alcuna idea della sua origine. Come disse la paziente, entrambi, in un certo senso, lo sapevano. Ma egli doveva anche lasciare sviluppare la situazione, tollerando di sentirsi sotto il controllo delle identificazioni proiettive della paziente, senza rigettargliele addosso. In questo modo egli doveva rivivere ciò che la paziente temeva di rivivere ma aveva bisogno di rivivere. Quando lei poté risperimentare i vissuti con i suoi oggetti, entrambi avevano sofferto insieme attraverso il transfert.

Ciò significava che l’analista doveva tollerare di sentirsi attaccato e trattato malamente. La paziente attaccava realmente la sua capacità di contenimento, e lo fece ripetutamente. Ma, come divenne chiaro in questa seduta, proprio quell’attacco nel tranfert contestuale rappresentava la nuova capacità della signorina Harvey di fidarsi nel contesto, una abilità a cui lei aveva rinunciato presto nella vita, o che forse non aveva mai acquisito. Fondamentalmente la sua capacità di arrabbiarsi con lui rappresentò una accresciuta fiducia nel transfert contestuale, mentre la costante capacità dell’analista di contenere questi assalti rinforzò la sua fiducia nella loro relazione, attraverso lo spazio del lavoro comune. Ciò consentì alla paziente di credere e sentirsi sostenuta nella relazione. La seduta convalidò questa convinzione condivisa di un contenitore rinforzato, che permise di procedere con il lavoro sul transfert e controtransfert focalizzati.

Ci sono state delle confusioni sul ruolo del transfert nella psicoterapia individuale, perché qui la qualità del transfert sembra meno intensa che in una analisi. Questo è stato in genere inteso dagli analisti nel senso che questo tipo di transfert è meno utile. È stato certamente visto come esso sia più diffuso. Nel transfert possono emergere parti isolate di un conflitto edipico con il terapeuta, o eventi come le vacanze o qualcosa che l’analista dice, possono scatenare una reazione nella quale il terapeuta è visto dal paziente come un oggetto rifiutante. Ma questi piccoli eventi non diventano, per così dire, grandi come una valanga. Piuttosto il paziente sperimenta una certa sua modalità di rapportarsi con le persone e tratta il terapeuta come uno dei propri oggetti interni. Se il terapeuta è più benevolo di altri, egli diventa il più benevolo degli oggetti. Sin dall’inizio, il ruolo di questi oggetti è quello di fornire il clima favorevole nel quale può procedere la soluzione dei problemi e la scoperta di sé. Così noi concludiamo che nella terapia individuale le reazioni più sentite nei confronti del terapeuta riguardano prevalentemente il successo o il fallimento nell’holding.

La costruzione di un’immagine interna della famiglia nel paziente individuale

Il punto finale portato nell’esempio della signorina Harvey è un punto cruciale per i terapeuti familiari e per i terapeuti individuali che si interessano alla famiglia. Il transfert permette al terapeuta di comprendere e costruire un’immagine della famiglia del paziente, cosa che può essere pienamente e accuratamente capita solo attraverso l’uso del controtransfert. Parti delle esperienze infantili della paziente con la madre vennero alla luce in questa seduta. Le altre sedute ricostruirono la sua esperienza con il padre e con i fratelli. Con il vantaggio di diverse sedute di questo tipo il terapeuta ottiene un quadro ricco che corrisponde all’esperienza della vita del paziente nella sua famiglia, anche se carente per quanto riguarda completezza e oggettività. Questo è un punto fondamentale nell’approccio delle relazioni oggettuali, dove l’esperienza soggettiva della vita in famiglia vale quanto una visione della famiglia così detta “esterna”. Entrambe hanno ugual peso e una non può sostituire l’altra.

In modo analogo il terapeuta familiare può costruire una immagine della realtà interna della famiglia che è altrettanto “vera” della realtà interattiva tra loro, osservabile nell’hic et nunc (Winer 1985).

Transfert e controtransfert nel trattamento della famiglia

Questo ci porta a considerare l’importanza del transfert e controtransfert nel lavoro con la famiglia e con le coppie. Nella terapia familiare i pazienti arrivano con dei transfert focalizzati tra loro che esistono da sempre; questi transfert forniscono uno strumento che è disponibile solo occasionalmente per lo psicoterapeuta, e per l’analista solo dopo che si è cristallizzata la nevrosi di traslazione. Anche la famiglia, come il paziente individuale, inizia un trattamento con un transfert sull’holding predisposto dal terapeuta. Nella terapia familiare la comprensione di questo transfert contestuale è un mezzo per influenzare indirettamente i diversi transfert focali. È nella nostra ipotesi che il transfert contestuale e il controtransfert siano i più importanti organizzatori della comprensione del terapeuta nella terapia della famiglia. Il seguente esempio illustrerà questa ipotesi e ci permetterà un’ulteriore elaborazione.

Questa è una seduta con la famiglia Jansen che io ho visto con diverse modalità per quasi due anni1. Vennero quando Tom, che allora aveva nove anni, fece irruzione in un magazzino di componenti elettrici, distruggendo della merce. Lui era lo zimbello della sua classe a scuola e si scontrava continuamente con i due fratelli maggiori. Dopo una seduta all’inizio della terapia in cui Tom prima esplose contro i fratelli e poi corse fuori della stanza verso la macchina, il padre non permise più ai fratelli di Tom di venire alle sedute. Egli disse: “Uno dei nostri figli è allo sfascio, non gli permetteremo di contaminare quelli che funzionano”. In questa occasione emersero le difese del padre. Per me fu chiaro, e in quel caso anche per la moglie, che non si poteva convincere il signor Jansen a coinvolgersi in una terapia familiare. Tuttavia, dopo circa sei mesi di lavoro individuale con Tom, contemporaneamente a un lavoro con i genitori che il padre definiva “non è certamente una terapia per noi”, il comportamento di Tom migliorò abbastanza, sia a casa che in una seduta di prova con la famiglia, nella quale il padre aveva accettato di esporre tutti i figli alla terapia familiare. Questa seduta avvenne durante il periodo del campeggio dei due fratelli più grandi. I tre entrarono e si sedettero, Tom prese posto su una sedia girevole rossa sulla quale continuò a ruotare per gran parte della seduta, per l’irritazione del signor Jansen. La signora disse che durante l’ultima settimana non avevano litigato, riferendosi alla settimana precedente in cui c’era stato un litigio proprio prima di venire alla seduta. Tom, in seduta, aveva usato questo bisticcio contro il padre. Il signor Jansen disse che tutti loro, anche Tom, sentivano la mancanza dei fratelli grandi. “Certo” disse Tom “sono i miei fratelli”. “Ma litigavate così tanto” disse la signora Jansen.

“Beh, ci amiamo. È proprio così che i fratelli fanno” disse Tom “ma a me piace anche avere la casa tutta per me”.

A questo punto, sentii che questa era una sorta di interessamento e che Tom realmente mostrava ora di essere più affezionato ai fratelli assenti di quanto non avrebbe ammesso un anno prima. Sentii che i genitori avevano fatto sì che lui mostrasse i suoi progressi, ed io lo ho apprezzato in parte, anche perché era come un riconoscere l’aiuto che avevo dato loro.

La mia idea che questa fosse una “pagella” sul miglioramento è stata confermata poco dopo quando il signor Jansen disse che avevano ricevuto la pagella scolastica di Tom. Come disse ciò, Tom cominciò a fare lo sciocco, sbuffando, facendo rumore, girandosi sulla sedia. Entrambi i genitori si arrabbiarono, gli dissero di fermarsi ma lui continuò. Essi notarono che questo era il tipo di cose che li faceva diventare matti a casa. Infine il signor Jansen disse: “Tom, niente gelato se non ti fermi”. “Questo è un ricatto” urlò Tom. E il padre “Certo, è così!”. Tom continuava con il suo comportamento ma incominciava a mettere il broncio. Stava sfidando suo padre che disse ancora: “Tom, intendo proprio così, niente gelato!”. Disse questo in un modo che a me sembrò come un balletto fra loro due, nel quale Tom avrebbe smesso giusto in tempo per ottenere il gelato. Sentii che per il signor Jansen entrambe queste cose erano frustranti: che Tom non la smettesse e che si mettesse così in primo piano.

Io avevo dei sentimenti confusi e contraddittori sulla valutazione sia della pagella che della crescita di Tom: mi sembrava che il signor Jansen avesse iniziato bene mostrando i miglioramenti di Tom nell’esprimere l’amore per i suoi fratelli. Perché aveva rincarato la dose riguardo alla scuola? E pensavo che doveva esserci dell’autentico imbarazzo da parte di Tom per i suoi successi scolastici. Sebbene non avessi potuto formularlo durante la seduta, in seguito mi resi conto che il signor Jansen stava facendo proprio il tipo di ostentazione ed esibizione che probabilmente causava a Tom dei problemi a scuola. Tom faceva il clown, cosa che accompagnava il suo desiderio di mostrare la sua “bravura”, e in parte stava davvero migliorando e ora provocato dal padre, non trovava di meglio da fare.

A questo punto della seduta ero incerto su cosa stesse succedendo, e vagamente a disagio sia con il padre che con Tom. Il mio disagio era determinato parzialmente dall’atteggiamento da clown di Tom, che non credevo in quel momento fosse dovuto ad un malessere. Tutto quello che potevo sentire era che stava esibendosi. Ed ero a disagio per via delle continue minacce utilizzate dal signor Jansen che sentivo essere di rappresaglia e vuote, invece di costituire dei limiti effettivi. Adesso ricordo di essere stato infastidito dal signor Jansen che incoraggiava Tom a picchiare gli altri bambini.

Sapevo che non era la soluzione migliore, ma il signor Jansen e Tom hanno gestito queste situazioni, in cui Tom era deriso, in un modo tale che non riuscivo più a dire quel che pensavo. Sapevo che la mia storia di relazione con i pari in latenza e nella prima adolescenza, costituisce un’area nella quale io mi sento un po’ vulnerabile; ciò significa che ogni volta che mi trovo confrontato a simili situazioni debbo riflettere per trovare una soluzione, piuttosto che fidarmi del mio istinto, come posso fare in altre situazioni. Così mi sentivo un po’ confuso e pensavo: “Bene, forse è questa la cosa da fare, dopo tutto”.

Sapevo, tuttavia, che il mio disagio era un segnale di conflitto e di confusione nei pazienti e che questo era il momento di intervenire. Sentivo che la mia rabbia per il signor Jansen si collocava nel contesto della crescente simpatia che, dopo tutto, provavo per lui. Notai che la signora Jansen se ne stava a guardare e permetteva che tutto questo continuasse, come faceva spesso. In quel momento pensai che lasciava le cose in mano al marito, mentre lei si limitava a fare qualche risolino. Mentre pensavo queste cose il signor Jansen parlava dei miglioramenti della pagella di Tom, che era eccellente nonostante gli incerti inizi dell’anno scolastico.

Ora mi sentivo pronto a utilizzare il mio disagio a scopo terapeutico. Interruppi il signor Jansen per chiedergli del ricatto e del comportamento problematico. Dissi: “Ciò che sta succedendo qui, in questo momento, è qualcosa di simile all’essere deriso a scuola, e di cui Tom non vuole che lei parli?”.

Il signor Jansen disse che forse una relazione c’era ma che la mia domanda lo aveva portato fuori strada, poiché lo aveva interrotto mentre stava per prendere in considerazione le obiezioni di Tom. Mi rendevo conto che il mio disagio mi aveva portato ad intervenire in modo meno fluido di quanto avessi desiderato e questo lo aveva confuso. Il signor Jansen, tuttavia, non era stato portato così fuori strada da non potermi rispondere.

Egli disse: “Io lo ‘ricatto’ perché non so cos’altro fare. Come fermarlo? Capisco che potrebbe essere in relazione con la scuola”. Fece una pausa, abbassando gli occhi, poi rivolse nuovamente lo sguardo verso Tom, e disse: “Lo sai che anch’io quando ero piccolo mi sono messo molte volte a picchiare? e di solito perdevo”. Come disse questo, si rilassò e il suo atteggiamento da oppositivo, sembrò diventare affettuoso e paterno.

Stentavo a credere al tono partecipativo del signor Jansen. Era spontaneo e sincero, un nuovo modo di presentare se stesso. Sentii un’ondata di sollievo di fronte a questo progresso.

E Tom rispose: “No, non lo sapevo. Davvero lo facevi?” Smise di giocherellare con le carte che aveva preso dopo essersi stancato di girare con la sedia. E guardò dritto suo padre.

Provai una sorta di scossa emotiva. I miei sentimenti per il signor Jansen stavano cambiando. Mi resi conto, ancora una volta retrospettivamente, che potevo in quel momento consapevolmente prendere il controllo; che mi ero sentito un po’ tenuto in pugno da lui sin dall’inizio, quando aveva assunto quell’atteggiamento così offensivo riguardo alla ‘contaminazione dei suoi figli sani’ e l’aveva usato come una barriera per evitare ogni approfondimento e ogni condivisione da parte sua. Sebbene mi fossi sentito – a un certo livello – in empatia con la tolleranza della signora Jansen riguardo alla prepotenza del marito, il mio colludere con lei in tale atteggiamento, ha fatto sì che io, vicariamente, subissi il controllo anche da parte di lei. Ma la piccola dimostrazione di volontà a collaborare e a condividere del signor Jansen, mi fece sentire molto più simile a lui, e poiché sapevo quanto difficile fosse per lui abbassare la guardia, sentii ancora una volta che rispettavo lui e il suo coraggio.

Gli chiesi allora di dire di più, e questa volta, pacatamente ma di buon grado, produsse questa elaborazione: “Io ero un atleta, e la cosa mi aiutava. Ma quando i ragazzi più grandi si avvicinavano, se la prendevano sempre con me e io non potevo picchiarli. Non era come per Tom. Non erano ragazzi della mia età, ma io facevo a botte lo stesso!”.

Pensavo, ancora leggermente irritato, che iniziavo a capire qualcosa del perché questo gli capitasse così di frequente, e cioè supponevo che lui doveva essere stato provocatorio. Mentre lui parlava dei ragazzi più grandi che lo picchiavano, mi passò per la testa una breve scena in cui lo vedevo provocare alcuni ragazzi più grandi di lui mentre questi si coalizzavano contro di lui. In questa fantasia io mi identificavo in parte con lui e in parte con gli altri ragazzi e inoltre vedevo tutto ciò dalla prospettiva della mia infanzia. Avevo simpatia un po’ per lui e un po’ per gli altri ragazzi.

Mentre riflettevo su questo, la signora Jansen disse: “Mi chiedo se non eri tu a provocare?”. Io intervenni dicendo che spesso il signor Jansen incitava Tom a picchiare come se fosse la giusta risposta alle beffe. Poiché entrambi stavamo pensando a come Tom poteva provocare gli altri ragazzi, mi domandavo se ciò poteva collegarsi con l’incoraggiamento del padre a provocare Tom a dar inizio alle aggressioni, pur essendone spaventato.

La signora sorrise e disse: “Oh, certo che può essere provocatorio. Naturalmente lo è con me, per cominciare”.

Le chiesi: “Può darmi un esempio?”.

Essi concordavano che l’ultimo grande scontro era stato quella volta che… e con un sorriso di intesa dissero che non ne volevano parlare di fronte a Tom, perché toccava la loro intimità, la loro vita sessuale. Percepii che eravamo molto vicini all’emergere di materiale che riguardava la coppia e la perdita del controllo da parte del marito. Ma in quel momento non ritenni opportuno oltrepassare il limite – adeguato – della loro intimità matrimoniale. Chiesi quindi se c’erano altri esempi che potevano portare in seduta.

La signora pensò un momento e disse: “C’è stata una volta in cui lui mi doveva passare a prendere e ci siamo fraintesi sul luogo dell’appuntamento”. Il marito continuò la storia. Lei arrivò a casa infuriata dopo aver camminato a lungo perché era senza soldi. Lui sapeva, quando entrò in casa, che era furibonda. Lei disse: “Sì, ma invece di dire che ti spiaceva, mi hai accusato di stupidità per aver sbagliato angolo e che mi stava bene. Per cominciare ero davvero fuori di me, ma questo non è il punto, ora. L’hai fatto per provocarmi”. E sorrise con affetto a mostrargli che non lo stava attaccando e concluse: “E tu lo sai, tesoro!”.

“È vero, disse lui, le ho fatto questo, e in un certo senso mi è piaciuto. Non avrei dovuto, ma è vero che l’ho fatto”.

Mi sentii contento che fossero stati in grado di fare questo lavoro insieme, “tanto di cappello” al fatto che ci riuscissero. Essendo riusciti a evidenziare come la provocazione appartenesse alla famiglia, sentii che potevo collegare ciò con Tom. E mi rivolsi a lui chiedendogli se era a conoscenza di questa parte di vita di suo padre.

“Sì, so che può stuzzicare la mamma e me, disse, ma non sapevo niente degli scontri con gli altri ragazzi. Piuttosto interessante, papà!”.

Ora, sentendoli più vicini, dissi: “Mi domando, signor Jansen, se lei non pensi che i comportamenti di Tom possano costituire per lei un po’ di sollievo in quanto rappresentano una specie di rivincita, vicaria, sui ragazzi che la picchiavano”.

“Non l’ho mai pensato, ma forse è così”, disse. La signora Jansen gli mise un braccio sulle spalle. Ciò non cancellava il fatto che lei si fosse spesso sentita ferita e prevaricata dal marito – cosa che considero far parte del suo masochismo. Però sentivo che potevamo ora parlare del problema di sentirsi feriti in famiglia come qualcosa di analogo ai sentimenti di Tom di non poter gestire le relazioni con i compagni, a scuola.

Dissi, a conclusione della seduta, che c’era una relazione tra il sentirsi feriti a casa e a scuola, e che capire quel che succede a casa dovrebbe aiutare ad immaginare quel che accade a scuola.

Tom era molto interessato, come indicava il suo insolito e allegro “Arrivederci” sulla porta.

 

L’analisi di questa seduta, dovrebbe dare un’idea della complessità del lavoro in cui il terapeuta riceve molteplici transfert dalla famiglia i cui membri hanno già sviluppato dei transfert tra di loro. Ci sono ovviamente le molteplici reazioni alla famiglia rispetto a ciò che avviene in seduta; ci sono poi le reazioni specifiche verso ogni membro della famiglia e gli aspetti specifici delle loro reciproche relazioni.

Ma il campo è troppo complesso per essere compreso così. Le risposte più utili alla comprensione nascono più dal sentimento di confusione che la famiglia come insieme suscita nel terapeuta o dalle fantasie che in lui emergono spontaneamente ascoltando la famiglia, i sottogruppi o i singoli che parlano. L’abilità di capire e poi di organizzare questa comprensione deriva dalle “capacità negative”.

Tali fantasie del terapeuta conducono a livelli più profondi di risposta controtransferale a mano a mano che il terapeuta procede verso la comprensione degli errori nel transfert contestuale globale piuttosto che nei trasfert individuali frammentati. I membri della famiglia hanno dei transfert focalizzati tra di loro, come quello di Tom che provoca il padre e si identifica con il “ragazzino provocatore” che il padre era stato; o quello del signor Jansen che proietta sulla moglie la identificazione di “vittima sofferente” e che lei utilizza per sue proprie ragioni (che qui non esploriamo). In molti momenti della seduta il terapeuta è preso da queste identificazioni; di fatto esse costituiscono il materiale per la costruzione di un transfert globale di contenimento.

Utilizzare il tranfert individuale per costruire il transfert contestuale

Ogni famiglia spesso parla attraverso uno dei suoi membri. Quando questo succede, il transfert individuale di quel membro può colpire il terapeuta con forza inusuale, ne risulta cioè quello che Stierlin (1977) ha definito una “deviazione” dalla “imparzialità”. Nella nostra esperienza l’impatto di tali transfert individuali e le deviazioni dei relativi controtransfert avvengono in ogni seduta familiare. Quando avvengono, tali deviazioni possono essere comprese in un modo particolare e cruciale. La famiglia come gruppo induce un transfert sia nella sua forma focalizzata che in quella contestuale, per parlare del suo transfert contestuale condiviso. In questa prospettiva, le deviazioni del controtransfert dalla imparzialità diventano non degli sviamenti, ma dei percorsi chiari per la comprensione del controtransfert contestuale condiviso della famiglia.

Così, in questa seduta la lotta del terapeuta con la rabbia, a volte con il padre a volte con Tom per le loro provocazioni, rappresentava una risposta di controtransfert ai sentimenti di prevaricazione in lui provocati dal gruppo famiglia; famiglia che si difendeva con un transfert provocatorio perché temeva che il terapeuta stesso potesse abusare della sua posizione all’interno del setting per ferirli. I sentimenti devianti che il terapeuta sente in diversi momenti della seduta, ora verso Tom, ora verso il padre o la madre, erano comunque sempre legati al transfert contestuale condiviso che organizzava le loro relazioni.

In tal modo ogni risposta del terapeuta a ciascun membro della famiglia rafforza la funzione di “holding” contestuale per la famiglia. Ed è questa la funzione principale di cui prendersi cura. A questo livello di organizzazione, i transfert individuali e le interazioni transferali e controtransferali sono tutti ugualmente importanti, così come i mattoni utilizzati per la costruzione di un edificio. Ma l’attenzione a cosa vi sia di sbagliato nella collocazione di uno dei mattoni individuali aiuta a pensare più alla struttura e alla funzione globale della casa che non ai singoli mattoni. In questa famiglia la funzione di “holding” potrebbe essere minacciata ed erosa dalla condivisa preoccupazione per la provocazione e gli attacchi, per chi stia per diventare vittima e chi persecutore, cosa emersa del resto come transfert contestuale verso il terapeuta.

Favorire il controtransfert

Le informazioni sul transfert della famiglia inizialmente arrivano in modo disordinato. Esse sono organizzate dal controtransfert dell’analista nei confronti di questa condivisa preoccupazione della famiglia. La famiglia combatte per far fronte alla preoccupazione condivisa riguardo il mondo – sia il suo mondo interno che il mondo esterno; questa battaglia cattura il terapeuta, le cui predisposizioni per affrontare il lavoro terapeutico permettono alla famiglia di vivere questa preoccupazione in uno spazio “intermedio”, al confine tra la famiglia e il terapeuta, all’interno del contesto di “holding”.

I segnali provenienti dalla battaglia della famiglia, inevitabilmente, si mescolano con i conflitti propri dell’analista. Attraverso questo processo di lotta interna, il terapeuta distingue tra le proprie relazioni oggettuali interne e quelle che i pazienti hanno proiettato su di lui. In questo lavoro egli si rifà alle sue esperienze con simili conflitti, in modo da rendere l’intero processo più conscio, lavorando nel senso di una ricomprensione dei problemi. Naturalmente, alcuni problemi saranno stati per il terapeuta più conflittuali di altri. Ogni terapeuta ha interiorizzato delle battaglie in aree specifiche del suo passato. Sono queste le aree che, attraverso un trattamento personale e la supervisione, diventano consce e acquistano un livello di utilizzabilità altrimenti non raggiungibile. Una volta che il terapeuta è sufficientemente a contatto con queste parti, esse diventano molto più utili di parti che invece non sono mai state significative per le battaglie interne. Queste diventano aree nelle quali il terapeuta può meglio empatizzare con i pazienti e le famiglie. Noi vogliamo che i nostri studenti si sentano liberi di lavorare su questi problemi in supervisione senza dover temere di avere bisogno di un ulteriore trattamento personale. L’insegnamento più difficile e più importante che vogliamo dare ai nostri studenti riguarda la fondamentale importanza di riconoscere e di affrontare la propria vulnerabilità. Questa è la pietra miliare del tipo di terapia psicoanalitica familiare che noi cerchiamo di insegnare, tenendo conto di ciò che facciamo nel controtransfert.

Nelle analisi individuali predomina l’accento sul transfert e il controtransfert focalizzato, mentre il controtransfert e il transfert contestuale è l’organizzatore delle interazioni nelle terapie familiari. Qui abbiamo dimostrato come l’uso di queste due forme di transfert e controtransfert coesistano in gradi diversi nel lavoro con gli individui e le famiglie.

Note

1 Alcune incompletezze nella storia familiare sono dovute al fatto che l’Autore si occupa della famiglia Jansen anche in un altro capitolo del libro (NdT). 


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