Interazioni

Trauma, famiglia e società

Francesca Enuncio, Donatella Lisciotto

N. 61 / 2025 - Francoangeli

Editoriale

Trauma, famiglia e società

a cura di Donatella Lisciotto, Francesca Enuncio

Il numero di Interazioni che vi presentiamo si intitola Trauma, famiglia e società ed è stato pensato con l’intento di analizzare la ricaduta dei fatti traumatici che stanno interessando la contemporaneità, sull’individuo, sulle coppie e sulle famiglie. Dobbiamo fare un passo indietro, al 2019, quando il mondo è stato colpito dalla pandemia da Covid-Sars-19. La pandemia ha infatti segnato un crinale epocale, nella misura in cui ha messo l’individuo, di ogni fascia sociale, di qualsiasi sesso, etnia e credo religioso, di fronte a una condizione esterna ‒ ma soprattutto interna ‒ del tutto nuova che lo ha portato a rivalutare la caducità dell’esistenza, a ripensare ai propri limiti, a soppesare l’onnipotenza e riconsiderare le proprie priorità. Lo ha fatto ribaltando le abitudini ‒ anche le più semplici ‒ e soprattutto i riti che caratterizzano da sempre la storia dell’individuo. Pensiamo soltanto alla condizione di isolamento che ha costretto ad affrontare eventi come la morte, propria e dei propri cari, in solitudine, rinunciando a quei riti societari necessari ad avviare una elaborazione del lutto. Ma anche le nascite, i matrimoni e tutte quelle occasioni che prevedono la ritualità come condivisione col gruppo di appartenenza, tramandano cultura e rinsaldano il senso interno di gruppalità. Durante i due lunghi anni pandemici potremmo dire che eravamo tutti “uguali”, o così ci sentivamo: indifesi, vulnerabili, inermi, tutti terrorizzati da un minuscolo virus. Da questo punto di vista si è sperato in un’esperienza di arricchimento collettivo, un’acquisizione potente di solidarietà che, scampato il pericolo, avrebbe indotto a coltivare di più la bellezza, la condivisione, il sostegno, l’aiuto e il rispetto reciproco, a essere un po’ più saggi e dignitosi. Più “buoni”. Ma così non è stato. Come abbiamo visto, al contrario, l’oppressione subita, la paura e i lutti congelati o incompleti, hanno mobilitata l’aggressività che ha assunto forme diversificate. Dalle guerriglie urbane nei quartieri, agli episodi di criminalità spicciola, alle guerre a livello mondiale, fino a paventare quelle nucleari. Per non parlare delle persecuzioni, delle invasioni, delle appropriazioni arbitrarie di territori e della distruzione efferata dei luoghi di appartenenza e di cura (case dei civili, ospedali, scuole, luoghi di culto, ecc.), che hanno provocato esodi di intere popolazioni, e stanno tentando di cancellare l’identità di interi popoli e la loro storia. È bene sottolineare che l’alienazione dell’identità di un popolo interessa tutti, interessa l’Umano, poiché và a destabilizzare l’equilibrio emotivo, l’assetto storico e culturale anche di coloro che non vivono sotto i bombardamenti. Si tratta di un fenomeno che convoca l’umanità che c’è in ognuno di noi, dal momento che raggiunge l’inconscio che, come sappiamo, si estende nell’ectopico e nell’extratopico. Un segnale allarmante di questo è il malessere giovanile, aumentato in maniera esponenziale. Gli adolescenti ricorrono più spesso di prima a fenomeni autolesionistici, assumono condotte a rischio, anche indotte da quella che può definirsi “la cultura del web” che, in taluni casi, istiga persino al suicidio. Da un altro vertice, l’emarginazione degli anziani, non più proattivi come impone una società neoliberista, si è maggiormente imposta calpestando il significato culturale della “vecchiaia” e privandoci di questo patrimonio. Stiamo assistendo ogni giorno a scenari di crudeltà disumana, a espressioni di dominio cieco, a brama di potere. Quello che colpisce sono le modalità scellerate che sottendono ad un’assenza di pensiero, di senso critico, e talvolta di un corretto esame di realtà. Questa è una condizione molto pericolosa anche perché si muove come un contagio. Un altro virus! Si avverte un ribaltamento della realtà accompagnato dalla perdita del senso di fiducia dei garanti mentre l’individuo è sempre più smarrito e confuso. Come è noto questo meccanismo alimenta l’identificazione a massa (Kaës, Canetti, ecc.) dove l’esame di realtà e il pensiero critico si riduce in cerca di sicurezza mentre, al contempo, al limite della sopraffazione, aumenta la deresponsabilizzazione e la delega. A livello mondiale la corsa al riarmo sembra esserne una rappresentazione. Spinti dalla paura di essere attaccati, si attacca. Gradualmente e inconsapevolmente, come in un trascinamento svogliato, una quota sempre maggiore di inibizione affettiva-emotiva induce ad aderire ad un pensiero collettivo che sembra instupidire il mondo. In questo modo, aree di organizzazione di massa stanno caratterizzando la situazione geopolitica, e non solo, intrudono piuttosto nelle aree inconsce agendo una condizione interna di grave destabilizzazione. Restano vani i richiami ad una pensabilità che rivaluti la complessità, e salvaguardi gli equilibri intrapsichici. È conseguenziale la ricaduta sulle fasce più vulnerabili, come i bambini, gli adolescenti e gli anziani e, in toto, sulle dinamiche familiari. I transfert verso il mondo esterno vengono ripetutamente stressati sia dall’esigenza di trovare depositi affidabili (Bleger) dove collocare e contenere i propri aspetti ambigui, la confusione emotiva, la quota in eccesso di vulnerabilità e insicurezza, sia dalla precarietà dei garanti che, di rimando, agisce come un boomerang. Esiste dunque, in atto, un processo precipuo che si impone alla nostra attenzione e per il quale una lettura psicoanalitica approfondita diventa dirimente, nella considerazione che la psicoanalisi è anche sociale. Nel tempo diversi analisti sono stati particolarmente sensibili al tema, da Janine Puget e Isidoro Berenstein fino ai contemporanei Silvia Amati Sas, Yolanda Gambel, Carole Tarantelli, Miguel Benasayag e molti altri. Come psicoanalisti e psicoterapeuti, a nostro avviso, diventa dunque una delle priorità estendere la conoscenza psicoanalitica anche oltre l’intrapsichico, nella considerazione che questi, sollecitato anche da spinte esterne, dia avvio a processi inter e transpichici. Dobbiamo dunque capire cosa stia succedendo all’umanità, quali meccanismi intra, inter e transoggettivi l’individuo stia adottando, o nei quali si trova intrappolato, cercare approfondimenti che vadano al di là delle opinioni o delle ideologie affinché attraverso il pensare in ottica psicoanalitica si possano individuare e comprendere i meccanismi posti in essere per affrontare i mutamenti e le contraddizioni contemporanee e i loro effetti traumatici; ma anche allevare spazi mentali dove possa svilupparsi fiducia e speranza, il cimento verso nuove risoluzioni, paradigmi ancora inesplorati e da costruire, una nuova creatività: quella che sopravvive alla sopraffazione, che inventa, che costruisce dalla distruzione. In tal senso i traumi condivisi potrebbero funzionare come agente elaborativo piuttosto che come fattore disorganizzante se prevale la co-creazione della speranza. Come dice Yolanda Gampel, quando si crea un senso di comunità “c’è una luce che non si spegne” anche se in taluni momenti non la si vede, “la luce c’è”. “Diventare noi stessi lucciole” ‒ scrive Silvia Amati Sas per resistere all’oscurità di una cultura priva di valori e di speranza e non perdere il desiderio di esistere restando umani. Questo incoraggia a pensarci come tante lucine, una miriade, e che attraverso una filosofia del coraggio (Gampel), si possa proteggere l’umanità che è in noi. Ed è in quest’ottica che abbiamo chiesto ad alcuni autori di commentare la ricaduta del traumatismo sociale sull’individuo. Il volume si suddivide in due parti. L’articolo di Giuseppe Saraò Sul traumatico: il segreto e il margine incerto tra conflittualità e violenza, ci aiuta ad introdurre il tema della prima parte dedicata a Sessualità e trauma. Qui il trauma fa specificatamente riferimento all’abuso sessuale, mostrando non solo la sua capacità di travolgere chi lo subisce, ma anche quella di addentrarsi nella torbida area del segreto, lasciando delle tracce mute e inesplorate che si riverbereranno nelle interazioni familiari di generazione in generazione. Partendo da queste considerazioni e dalla condivisione del complesso trattamento psicoanalitico di una famiglia segnata dal segreto relativo ad un abuso sessuale subito dalla madre di cui è il figlio a farsi portavoce attraverso una sintomatologia incontenibile e violenta, l’autore esplora la necessità di fornire contenimento ad un dolore mentale che rimanda ai “territori inospitali del disumano”. Saraò ci mostra con grande efficacia il faticoso lavoro di costruzione di un setting (allargato e variabile, se necessario) che possa “fornire una forma di contenimento per poter pensare e contrastare qualcosa d’indistinto e diffuso, uno spazio transizionale per tutti, un posto psichico per lo psichismo della famiglia”, capace di offrire riconoscimento a chi ha subito violenza, di uscire dalla coazione a ripetere e di produrre elementi di figurabilità e di pensiero. A seguire, in stretta connessione, l’articolo di Diana Norsa dal titolo Lo spazio potenziale nella famiglia con abuso: confusione fra spazi psichici, che riflette sull’impossibilità delle famiglie caratterizzate da un contesto abusante di accedere ad uno spazio potenziale. Attraverso il trattamento di una famiglia in cui un trauma sessuale a carico dalla madre ha avuto conseguenze sullo sviluppo psicosessuale del figlio primogenito, Norsa mostra come quest’assenza di spazio potenziale possa mettere a rischio lo spazio psichico di uno dei membri, rendendolo preda delle proiezioni dell’altro e depositario di un nucleo agglutinato che può sprigionare una distruttività incontenibile, capace di smantellare quel prezioso lavoro psichico che costruisce legami di senso fra le sensazioni corporee, le emozioni e le fantasie. Il lavoro terapeutico (che Diana Norsa ha svolto inizialmente con il ragazzo e poi con la coppia dei genitori) si deve allora districare fra negazione e irrappresentabilità, per poter condurre alla costruzione di quello spazio potenziale mancante, attraverso l’attento lavoro del terapeuta che, “con la sua capacità di costituirsi parte del gruppo e facilitatore di un processo che permette di dipanare l’intricato groviglio intrapsichico-intersoggettivo-intrasoggettivo, può ridare spazio alle differenze temporali, alle differenti generazioni e infine alla soggettività individuale”. L’articolo di Cristina Călărășanu, Traumi, fantasie e intimità sessuale, con cui si conclude questa prima parte del numero, affronta il tema dell’intimità sessuale in riferimento a situazioni traumatiche che possono bloccare il raggiungimento di una piena individuazione. Una interessante e dettagliata vignetta clinica illustra come questo possa generare effetti perturbanti nei legami di coppia, che possono prendere la forma di una simbiosi o di una dipendenza perversa in cui la sessualità viene confusa con il dominio e il potere. La coppia che Călărășanu ci presenta, infatti, si trova in quella che Caillot e Decherf (1982) hanno definito “posizione narcisistica paradossale”, una posizione psicologica molto primitiva, in cui la relazione d’oggetto è paradossale e le angosce sono catastrofiche. I partner di questa giovane coppia sono imprigionati in quel circolo vizioso che gli autori hanno riassunto con la famosa frase: “vivere insieme ci uccide, separarci è mortale”. Il tortuoso percorso terapeutico condotto dall’autrice ci mostra come la mobilitazione di alcuni movimenti transferali molto violenti abbia turbato il processo terapeutico, ma allo stesso tempo abbia condotto ad una potenziale elaborazione della distruttività e ad un recupero del potenziale creativo della coppia, ponendo fine al ciclo infinito della ripetizione nel legame. Nella seconda parte del numero, Donatella Lisciotto conduce un’intervista (rielaborata e proposta per Interazioni come un articolo a quattro mani) a Miguel Benasayag, invitandolo a condividere una riflessione sul traumatismo sociale dei nostri tempi. A questo scopo, il concetto di trauma sociale viene esteso oltre le guerre, le pandemie, le dittature, per includere quella che gli autori descrivono come colonizzazione algoritmica della vita. Una delle cause del “traumatismo sociale”, consiste infatti oggi, secondo Benasayag, proprio nella colonizzazione dell’esistenza provocata dalla continua richiesta di funzionamento che la società impone agli individui. “Il funzionare può avere molteplici sfaccettature: funzionare, quando diventa intollerabile l’impatto con i fatti abusanti, può delinearsi come un modo per neutralizzare l’angoscia esistenziale, per difendersi dalla paura del vivere attraverso il fare, il produrre. […] In tal senso, si potrebbe ravvisare, insieme all’aspetto perverso, un aspetto collusivo dell’individuo col sistema”. L’affermarsi di una società che spinge sempre di più al “funzionamento” proattivo ed efficiente, oscura nell’individuo la possibilità di “esistere” e paradossalmente impedisce la capacità di proiettarsi nel futuro. In questa direzione, il “tempo” assume un’importanza cruciale e condiziona il ciclo vitale dell’individuo, così come il lavoro dello psicoanalista, che viene sempre più spesso convocato da alcuni pazienti a farli funzionare meglio, nel minor tempo possibile. Gli autori riflettono su quanto il lavoro analitico, invece, si sviluppi nell’opposta direzione tentando di portare il paziente ad “appropriarsi del proprio tempo ‒ il cui ritmo è per ognuno diverso e originale ‒ di resistere alle sollecitazioni esterne ed aprire uno spazio di esistenza”. Il lavoro di Irma Morosini, Tempi attuali. I segni nelle famiglie, approfondisce ulteriormente questa riflessione, mostrando come “gli imperativi sociali e superegoici reiterino messaggi volti a raggiungere il potere, la soddisfazione, il successo, ad accorciare o eliminare i tempi di attesa, a prevenire la castrazione, a creare un mondo in cui tutto è possibile”. Il cambiamento è inevitabile, ma l’accelerazione con cui questi cambiamenti vengono introdotti oggi è tale, che sembra disfare tutti gli assetti precedenti. Non ci sono passaggi di transizione, ma salti e scorciatoie che non concedono il tempo necessario al pensiero e all’elaborazione psichica per assimilare il nuovo. Il malessere contemporaneo, secondo l’autrice, è un problema di frattura dei legami: “Quando gli attacchi ai garanti metasociali avvengono sotto forma di rotture di contratti e violazioni degli accordi di base precedentemente stabiliti, le alleanze inconsce vengono danneggiate e questo ha un impatto sulle soggettività (desoggettivazione), provoca sofferenza, incertezza sul futuro e danni alla speranza e alla fiducia in se stessi e nei legami”. Morosini propone una interessante disamina delle differenze esistenti tra realtà virtuale, fattuale e immaginaria mettendole in relazione con le “patologie dell’atto” oggi sempre più diffuse. Queste condizioni cliniche ‒ il cui denominatore comune è la solitudine ‒ cercano di modificare qualcosa all’esterno per calmare l’interno, ma senza passare attraverso un’elaborazione riflessiva. Quello a cui assistiamo è un ritiro della parola nell’ambiente, per cui la famiglia agisce invece di parlare. Di fronte a questo, i terapeuti familiari che lavorano psicoanaliticamente devono accogliere la sofferenza psichica di cui le famiglie sono portatrici per poi condurla verso una trasformazione raggiungibile solo attraverso una reintroduzione della possibilità di simboleggiare gli eventi e concedendosi il tempo necessario per la comprensione e l’elaborazione. A questo scopo, ci appare molto interessante la tecnica che l’autrice utilizza nelle sedute familiari che consiste nel “lavorare psicodrammaticamente con le scene vissute dalla famiglia (e/o dalla coppia), offrendo l’opportunità di ricreare situazioni simili a quelle reali o fantasticate, dando una forma reale nel “come se” dello spazio drammatico che permette di ripetere, analizzare e modificare. Poter pensare e parlare di ciò che angoscia, comprendere ciò che preoccupa, chiarire le proprie aspettative, genera una possibilità e una risoluzione diversa rispetto a ciò che viene portato in seduta”. Partendo da una profonda riflessione sulla sanguinosa guerra a Gaza, Sonnino (nell’articolo Ricaduta degli aspetti traumatici della società nell’individuo. L’(in)elaborabilità della colpa collettiva dei carnefici durante la Shoah) sostiene che i drammatici avvenimenti a cui abbiamo in questi mesi assistito rappresentino un chiaro esempio di come gli eventi storici possano ripercuotersi sulla psiche individuale e collettiva condizionandone i meccanismi più profondi. La “denuncia” dell’autore si rivolge, in particolare, alla recente e diffusa equiparazione dello Stato ebraico con il nazismo e del popolo palestinese con la nuova immagine di vittima (che soppianta la figura dell’ebreo perseguitato nella Shoah), che “sembrerebbe aver favorito la neutralizzazione catartica di quel senso di colpa collettivo inconscio che l’Europa, e non solo, ha verosimilmente coltivato dall’apertura dei cancelli di Auschwitz fino ai giorni nostri”. Di fronte ad avvenimenti di questa portata, l’autore offre una riflessione su quanto il traumatismo, trasmettendosi per vie inconsce che lo rendono inesprimibile ed ineffabile, abbia un profondo impatto sulla psicopatologia del singolo e della collettività. “Affinché il sopravvissuto vittima del trauma si apra ‒ conclude l’autore ‒ testimoniando il proprio dolore e tentando in tal modo il flebile lavoro psichico possibile di elaborazione dei lutti è innanzitutto necessario che ci sia un contesto esterno allargato disponibile ad accogliere il racconto senza traumatizzare ulteriormente, nel rispetto di almeno due criteri da considerare: la difficoltà di riaccostarsi all’area traumatica e la necessità di ricostruire quella fiducia nelle qualità morali dell’essere umano che la tragedia della Shoah ha seriamente compromesso”. A raccordo delle due parti che compongono questo numero sul trauma, abbiamo invitato tre colleghe ‒ Silvia Amati Sas, Yolanda Gampel e Carole Beebe Tarantelli ‒ che hanno dedicato da sempre i loro studi e la loro ricerca agli effetti del traumatismo sociale, a partecipare ad un dibattito sul tema del traumatismo ai giorni d’oggi, ma anche a riflettere insieme a noi sulle risorse di cui dispone l’individuo moderno per potervi fare fronte. Il numero si chiude, come di consueto, con le nostre rubriche: Virginia De Micco dedica la voce di dizionario ad un approfondimento dello sviluppo e della differenziazione tra il concetto di trauma e quello di traumatismo; Cristina Bonucci ci propone per Leggere le emozioni, una accurata e sensibile riflessione sul trauma inteso come rottura improvvisa della prevedibilità e della continuità “che varca il confine senza diventare soglia”, partendo dalla lettura del romanzo vincitore del premio Pulitzer, Pastorale Americana di Philip Roth; nelle Note d’arte, Donatella Lisciotto e Giuliana Marin intraprendono un viaggio perturbante sulla via dell’ambiguità e della vergogna che ci porta nel vivo del dramma dell’abuso, attraverso un’attenta disamina del film Festen di Thomas Veinterberg.

Articoli

Sul traumatico: il segreto e il margine incerto tra conflittualità e violenza

Giuseppe Saraò

Il lavoro prende spunto dal trattamento psicoanalitico di una famiglia in cui emerge un segreto relativo all’abuso sessuale nella generazione precedente. A svelare il traumatico, sono i sintomi del figlio che esprime violenza e disprezzo verso i genitori, rendendo il trattamento difficile e tortuoso. C’è necessità di un contenimento attraverso un setting allargato con variazione di setting in cui viene valorizzata la genitorialità residua. Nel contempo si procede dando voce e riconoscimento al dolore mentale depositato attraverso il segreto. Per far questo bisogna attraversare penosi sentimenti che rimandano ai territori inospitali del disumano. Vere e proprie zone aride e paludose dove la vita mentale del soggetto non ha valore. Il lavoro terapeutico procede lentamente nella costruzione di un noi capace di produrre elementi di figurabilità e di pensiero.
Lo spazio potenziale nella famiglia con abuso: confusione fra spazi psichici

Diana Norsa

Alla costruzione di un senso di sé solido e dinamico concorre in modo determinante la possibilità di utilizzare uno spazio potenziale, così come è stato definito da Winnicott, quello spazio psichico che è contemporaneamente me e non me. L’autrice riprende questo concetto di Winnicott ampliando il suo uso ai legami familiari. Un caso clinico verrà portato ad esemplificazione dell’effetto che un abuso sessuale subito dalla madre e a lungo negato ha avuto nella riduzione dello spazio potenziale della famiglia, provocando una sorta di cortocircuito fra i vissuti traumatici materni e il conflitto puberale del figlio.
Traumi, fantasie e intimità sessuale

Cristina Călărășanu

Questo articolo si propone di affrontare il tema dell’intimità sessuale in riferimento a situazioni traumatiche che hanno bloccato la possibilità di giungere ad una piena individuazione, con effetti perturbanti nei legami di coppia, come la funzione simbiotica e la dipendenza perversa dove la sessualità viene confusa con il dominio e il potere. Una vignetta clinica illustrerà la storia di un rincontro che ha prodotto per breve tempo l’illusione di una guarigione miracolosa, di una straordinaria rivitalizzazione. Ben presto, però, il desiderio di vivere insieme si è trasformato in un tentativo marcatamente violento e tirannico di sopravvivere alla malinconia del legame.
Il traumatismo sociale. Conversando con Miguel Benasayag

Miguel Benasayag, Donatella Lisciotto

Tra le cause del traumatismo sociale, gli autori descrivono la “colonizzazione algoritmica” che provoca una condizione di spossessamento di sé. L’affermarsi di una società che spinge sempre di più al “funzionamento” proattivo ed efficiente, oscura nell’individuo la possibilità di “esistere” e paradossalmente ne impedisce la capacità di proiettarsi nel futuro. In questa direzione, il “tempo” assume un’importanza cruciale e condiziona il ciclo vitale dell’individuo. La condizione intrapsichica risulta appesantita da taluni aspetti alienanti della contemporaneità.
Tempi attuali. I segni nelle famiglie

Irma Morosini

L’autore esamina il lavoro della cultura in ogni generazione, mettendo in evidenza l’accelerazione dei cambiamenti in relazione alla variabile tempo e alla necessità di adattarsi ad essi. Vengono esaminate situazioni traumatiche come la pandemia globale, con i suoi effetti e le sue conseguenze e la configurazione di altri paradigmi. L’autore fa una panoramica sul pensiero di diversi autori e solleva il problema attuale della desoggettivazione con le ripercussioni delle rotture dei contratti che intaccano le necessarie garanzie metapsichiche e metasociali. Cita, inoltre, gli effetti della tirannia dell’individualismo, dell’incertezza e del bisogno di un senso ontologico di sicurezza. L’autore si sofferma, infine, sulle differenze tra realtà virtuale, fattuale e immaginaria, mettendole in relazione con le attuali patologie dell’atto, evidenziando l’importanza di un lavoro responsabile da parte dei terapeuti familiari.
Ricaduta degli aspetti traumatici della società nell’individuo. L’(in)elaborabilità della colpa collettiva dei carnefici durante la Shoah

Alberto Sonnino

La guerra a Gaza, successiva al pogrom perpetrato da Hamas il 7 ottobre ai danni della popolazione civile ebraica in Israele, ha comportato effetti psicologici sulla collettività in Europa e negli USA che meritano attenzione dalla riflessione psicoanalitica. Lo scatenarsi di un antisemitismo, forse inedito per diffusione e intensità nella modernità, tollerato e alimentato dalle masse, sembra infatti rappresentare l’effetto principale sulla psiche collettiva di un fatto storico. La tesi esplorata nell’articolo è che la recrudescenza dell’antisemitismo, assimilabile ad un fiume carsico, in precedenza più nascosto, sia stato favorito dagli effetti catartici del pogrom, lì dove l’assenza di una adeguata elaborazione delle responsabilità per la Shoah da parte dei carnefici, avrebbe comportato l’incistarsi di una colpa persecutoria non evoluta in colpa depressiva.

Leggere le emozioni

Pastorale americana. Il confine e la soglia

A cura di Cristina Bonucci

Attraverso una rilettura di Pastorale Americana (1997) dello scrittore statunitense Philiph Roth, l’articolo esplora alcuni temi di grande attualità: il trauma, la famiglia, la società e la genitorialità. La vita del protagonista del romanzo, Seymourn Levov, detto lo Svedese, è sconvolta e, insieme alla sua, quella dell’intera famiglia, in seguito all’atto terroristico di sua figlia, l’esplosione di un ordigno un ufficio postale, che causerà la morte di un innocente. Ogni convinzione, ogni sogno, ogni ideale, salteranno in aria con l’edificio postale, mettendo a soqquadro convinzioni che sembravano indistruttibili.

Note d’arte

Festen. Ambiguità e vergogna nella famiglia abusante

A cura di Donatella Lisciotto, Giuliana Marin

In questo lavoro, partendo dall’analisi del film Festen di Veinterberg (1998), le autrici si sono volute soffermare sul “segreto familiare” nelle situazioni abusanti, “il silenzio”, il clima di collusione che caratterizza la dinamica delle relazioni tra i membri della famiglia e lo “svelamento”. Si è analizzato il concetto dell’ambiguità (Silvia Amati Sas), che funziona come posizione mentale, in relazione a situazioni familiari in cui esiste e insiste un segreto incestuoso.